di Federica Marengo sabato 28 settembre 2024
-Arrivato in Belgio, il Pontefice, dopo la cerimonia di benvenuto all’aeroporto, presso l’Area di Melshraek, si è recato presso la Nunziatura Apostolica.
All’indomani, nella mattina del 27 settembre, il Santo Padre , dopo aver celebrato la Messa in privato, ha raggiunto in auto il Castello di Laeken per la visita di cortesia al Re dei Belgi, Filippo Leopold Lodewijk Maria e alla Regina, Mathilde d’Udekem d’Acoz. Qui, dopo le foto ufficiali e la firma del Libro d’Onore, ha avuto luogo l’incontro privato ,cui è seguito lo scambio dei doni.
Successivamente, Papa Francesco si è trasferito con il Re e la Regina nella Grande Galerie del Castello di Laeken per l’incontro con la Società Civile, le Autorità politiche e religiose, gli Imprenditori e i rappresentanti della Cultura.
Quindi, dopo il discorso del Re dei Belgi e del Primo Ministro, il Pontefice ha pronunciato il Suo discorso, incentrato ancora una volta sui temi della fraternità, dell’accoglienza , della guerra e della pace e nel quale ha condannato gli abusi sui minori da parte di esponenti della Chiesa: “Quando si pensa a questo Paese, si evoca contemporaneamente qualcosa di piccolo e di grande, un Paese occidentale e al tempo stesso centrale, come se fosse il cuore pulsante di un gigantesco organismo. In effetti, le proporzioni e l’ordine delle grandezze ingannano. Il Belgio non è uno Stato molto esteso, ma la sua peculiare storia ha fatto sì che, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, i popoli europei, stanchi e sfiniti, iniziando un serio cammino di pacificazione, collaborazione e integrazione, hanno guardato al Belgio come sede naturale delle principali istituzioni europee. Per il fatto di essere sulla linea di faglia tra mondo germanico e mondo latino, confinante con Francia e Germania, che più avevano incarnato le antitesi nazionalistiche alla base del conflitto, esso apparve come luogo ideale, quasi una sintesi dell’Europa, da cui ripartire per la sua ricostruzione, fisica, morale e spirituale. Si direbbe che il Belgio sia un ponte: tra il continente e le isole britanniche, tra l’area di matrice germanica e quella francofona, tra il sud e il nord dell’Europa. Un ponte, per permettere alla concordia di espandersi e di far indietreggiare le controversie. Un ponte dove ciascuno, con la sua lingua, la sua mentalità e le sue convinzioni, incontra l’altro e sceglie la parola, il dialogo, la condivisione come mezzi per relazionarsi. Un luogo dove si impara a fare della propria identità non un idolo o una barriera, ma uno spazio ospitale da cui partire e a cui ritornare, dove promuovere validi interscambi e cercare insieme nuovi equilibri, costruire nuove sintesi. Il Belgio è un ponte che favorisce i commerci, mette in comunicazione e fa dialogare le civiltà. Un ponte dunque indispensabile per costruire la pace e ripudiare la guerra. Si comprende bene allora quanto sia grande il piccolo Belgio! Si capisce come l’Europa ne abbia bisogno per ricordare a sé stessa la sua storia, fatta di popoli e culture, di cattedrali e università, di conquiste dell’ingegno umano, ma anche da tante guerre e da una volontà di dominio che è diventata a volte colonialismo e sfruttamento. L’Europa ha bisogno del Belgio per portare avanti il cammino di pace e di fraternità tra i popoli che la compongono. Questo Paese ricorda a tutti gli altri che, quando, sulla base delle più varie e insostenibili scuse , si comincia a non rispettare più confini e trattati e si lascia alle armi il diritto di creare il diritto, sovvertendo quello vigente, si scoperchia il vaso di Pandora e tutti i venti incominciano a soffiare violenti, squassando la casa e minacciando di distruggerla. In questo momento storico credo che il Belgio ha un ruolo molto importante. Siamo vicini a una guerra quasi mondiale. La concordia e la pace, infatti, non sono una conquista che si ottiene una volta per tutte, bensì un compito e una missione , la concordia e la pace sono un compito e una missione , una missione incessante da coltivare, da curare con tenacia e pazienza. L’essere umano, infatti, quando smette di fare memoria del passato e di lasciarsene istruire, possiede la sconcertante capacità di tornare a cadere anche dopo che si era finalmente rialzato, dimenticando le sofferenze e i costi spaventosi pagati dalle generazioni precedenti. In questo la memoria non funziona, è curioso, sono altre forze, sia nella società sia nelle persone, che ci fanno cadere sempre nelle stesse cose. In questo senso il Belgio è quanto mai prezioso per la memoria del continente europeo. Essa infatti mette a disposizione argomenti inoppugnabili per sviluppare un’azione culturale, sociale e politica costante e tempestiva, coraggiosa e insieme prudente, che escluda un futuro in cui nuovamente l’idea e la prassi della guerra diventino un’opzione percorribile, con conseguenze catastrofiche. La storia, magistra vitae troppo spesso inascoltata, dal Belgio chiama l’Europa a riprendere il suo cammino, a ritrovare il suo vero volto, a investire nuovamente sul futuro aprendosi alla vita, alla speranza, per sconfiggere l’inverno demografico e l’inferno della guerra! Sono due calamità in questo momento. L’inferno della guerra, lo stiamo vedendo, che può trasformarsi in una guerra mondiale. E l’inverno demografico; per questo dobbiamo essere pratici: fare figli, fare figli!. La Chiesa Cattolica vuole essere una presenza che, testimoniando la propria fede in Cristo Risorto, offre alle persone, alle famiglie, alle società e alle Nazioni una speranza antica e sempre nuova; una presenza che aiuta tutti ad affrontare le sfide e le prove, senza facili entusiasmi né cupi pessimismi, ma con la certezza che l’essere umano, amato da Dio, ha una vocazione eterna di pace e di bene e non è destinato alla dissoluzione e al nulla. Tenendo fisso lo sguardo a Gesù, la Chiesa si riconosce sempre come la discepola, che con timore e tremore segue il suo Maestro, sapendo di essere santa in quanto costituita da Lui e al tempo stesso fragile , santa e peccatrice , e mancante nei suoi membri, mai completamente adeguata al compito affidatole che sempre la supera. Essa annuncia una notizia che può colmare i cuori di gioia e, con le opere di carità e le innumerevoli testimonianze di amore al prossimo, cerca di offrire segni concreti e prove dell’amore che la muove. Essa, tuttavia, vive nella concretezza delle culture e delle mentalità di una determinata epoca, che contribuisce a plasmare o che in qualche modo a volte subisce; e non sempre comprende e vive il messaggio evangelico nella sua purezza e completezza. La Chiesa è santa e peccatrice. In questa perenne coesistenza fra santità e peccato, di luce e ombra vive la Chiesa, con esiti spesso di grande generosità e splendida dedizione, e a volte purtroppo con l’emergere di dolorose contro-testimonianze. Penso alle drammatiche vicende degli abusi sui minori ,alle quali si sono riferiti il Re e il Primo Ministro , una piaga che la Chiesa sta affrontando con decisione e fermezza, ascoltando e accompagnando le persone ferite e attuando in tutto il mondo un capillare programma di prevenzione. Fratelli e sorelle, questa è la vergogna! La vergogna che oggi tutti noi dobbiamo prendere in mano e chiedere perdono e risolvere il problema: la vergogna degli abusi, degli abusi sui minori. Noi pensiamo al tempo dei santi Innocenti e diciamo: “Oh che tragedia, cosa ha fatto il re Erode!”, ma oggi nella Chiesa c’è questo crimine; la Chiesa deve vergognarsi e chiedere perdono e cercare di risolvere questa situazione con l’umiltà cristiana. E mettere tutte le condizioni perché questo non succeda più. Qualcuno mi dice: “Santità, pensi che secondo le statistiche la grande maggioranza degli abusi si da in famiglia o nel quartiere o al mondo dello sport, nella scuola”. Uno solo è sufficiente per vergognarsi! Nella Chiesa dobbiamo chiedere perdono di questo; gli altri chiedano perdono per la loro parte. Questa è la nostra vergogna e la nostra umiliazione. Sono stato rattristato , a questo proposito , da un altro fenomeno: le “adozioni forzate”, avvenute anche qui in Belgio tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso. In quelle spinose storie si mescolò l’amaro frutto di un reato e di un crimine con ciò che era purtroppo l’esito di una mentalità diffusa in tutti gli strati della società, tanto che quanti agivano in base ad essa ritenevano in coscienza di compiere il bene, sia del bambino sia della madre. Spesso la famiglia e altri attori sociali, compresa la Chiesa, hanno pensato che per togliere lo stigma negativo, che purtroppo a quei tempi colpiva la madre non sposata, fosse preferibile per il bene di entrambi, madre e bambino, che quest’ultimo venisse adottato. Ci furono persino casi nei quali ad alcune donne non venne data la possibilità di scegliere se tenere il bambino o darlo in adozione. E questo succede oggi in alcune culture, in qualche Paese. Come successore dell’Apostolo Pietro prego il Signore, affinché la Chiesa trovi sempre in sé la forza per fare chiarezza e per non uniformarsi alla cultura dominante, anche quando tale cultura utilizzasse , manipolandoli , valori che derivano dal Vangelo, per trarne però indebite conclusioni, con il loro pesante esito di sofferenze e di esclusione. Prego affinché i responsabili delle Nazioni, guardando al Belgio e alla sua storia, sappiano trarne insegnamento e in questo modo risparmiare ai loro popoli sciagure senza fine e lutti senza numero. Prego, affinché i governanti sappiano assumersi la responsabilità, il rischio e l’onore della pace e sappiano allontanare l’azzardo, l’ignominia e l’assurdità della guerra. Prego affinché temano il giudizio della coscienza, della storia e di Dio, e convertano lo sguardo e i cuori, mettendo sempre al primo posto il bene comune. In questo momento nel quale l’economia si è sviluppata tanto, vorrei sottolineare che in qualche Paese gli investimenti che danno più redditi sono le fabbriche delle armi. Maestà, Signore e Signori, il motto di questa visita nel vostro Paese è “En route, avec Espérance”. Mi fa riflettere il fatto che Espérance sia scritto con la maiuscola: mi dice che la speranza non è una cosa, che durante il cammino si porta nello zaino; no, la speranza è un dono di Dio, forse è la virtù più umile , diceva lo scrittore, ma è quella che non fallisce mai, non delude mai. La speranza è un dono di Dio e si porta nel cuore! E allora voglio lasciare questo augurio a voi e a tutti gli uomini e le donne che vivono in Belgio: possiate sempre chiedere e accogliere questo dono dallo Spirito Santo, la speranza, per camminare insieme con Speranza nella strada della vita e della storia. Grazie!”.
Al termine del discorso, Papa Francesco, dopo essersi congedato, si è recato alla Home Saint-Joseph a Bruxelles, una residenza per anziani in difficoltà, per poi fare rientro alla Nunziatura Apostolica.
Nel pomeriggio, il Pontefice si è recato in auto presso la Katholieke Universiteit Leuven dove ha incontrato i docenti e le docenti dell’ Università UCLouvain. Accolto dal Rettore e dalla Rettrice, dall’Arcivescovo di Malines-Bruxelles, Mons. Luc Terlinden, in qualità di Gran Cancelliere dell’Università, dal Ministro Presidente delle Fiandre, dal Governatore della Provincia e dal Sindaco di Lovanio, Papa Francesco ha raggiunto la Promotion Hall , dove ha avuto luogo l’incontro.
Firmato il Libro d’Onore, il Rettore della Katholieke Universiteit Leuven ha pronunciato il saluto di benvenuto al Santo Padre e presentato il 600° anniversario di fondazione dell’Università, cui hanno fatto seguito la proiezione di un video sull’assistenza ai rifugiati e le video-testimonianze di alcuni rifugiati, e, in conclusione, l’esecuzione di un canto polifonico.
Papa Francesco, quindi, ha pronunciato il Suo discorso, nel quale ha esortato professori e professoresse , studenti e studentesse a continuare ad allargare i confini del sapere: “Sono lieto di trovarmi qui in mezzo a voi e ringrazio il Rettore per le sue parole di benvenuto, con le quali ha ricordato la storia e la tradizione in cui questa Università è radicata, come pure alcune delle principali sfide odierne da cui siamo tutti interpellati. È questo il primo compito dell’Università: offrire una formazione integrale perché le persone ricevano gli strumenti necessari a interpretare il presente e a progettare il futuro. La formazione culturale, infatti, non è mai fine a sé stessa e le Università non devono correre il rischio di diventare delle “cattedrali nel deserto”; esse sono, per loro natura, luoghi propulsori di idee e di stimoli nuovi per la vita e il pensiero dell’uomo e per le sfide della società, cioè spazi generativi. È bello pensare che l’Università genera cultura, genera idee, ma soprattutto promuove la passione per la ricerca della verità, al servizio del progresso umano. In particolare, gli Atenei cattolici, come questo, sono chiamati a «portare il decisivo contributo del lievito, del sale e della luce del Vangelo di Gesù Cristo e della Tradizione viva della Chiesa sempre aperta a nuovi scenari e a nuove proposte». Desidero allora rivolgervi un semplice invito: allargare i confini della conoscenza!. Non si tratta di moltiplicare le nozioni e le teorie, ma di fare della formazione accademica e culturale uno spazio vitale, che comprende la vita e parla alla vita. C’è una breve storia biblica narrata nel Libro delle Cronache, che mi piace qui richiamare. Il protagonista è Iabes, che rivolge a Dio questa supplica: «Se tu mi benedicessi e allargassi i miei confini». Iabes significa “dolore”, ed era stato chiamato così perché la mamma, nel partorirlo, aveva sofferto molto. Ma ora Iabes non vuole restare chiuso nel proprio dolore, trascinandosi nel lamento, e prega il Signore di “allargare i confini” della sua vita, per entrare in uno spazio benedetto, più grande, più accogliente. Il contrario sono le chiusure. Allargare i confini e diventare uno spazio aperto per l’uomo e per la società è la grande missione dell’Università. Nel nostro contesto, infatti, ci troviamo davanti a una situazione ambivalente, in cui i confini sono ristretti. Da una parte, siamo immersi in una cultura segnata dalla rinuncia alla ricerca della verità. Abbiamo perduto l’inquieta passione del cercare, per rifugiarci nella comodità di un pensiero debole, il dramma del pensiero debole!, per rifugiarci nella convinzione che tutto sia uguale, che una cosa valga l’altra, che tutto sia relativo. Dall’altra parte, quando nei contesti universitari e anche in altri ambiti si parla della verità, si scade spesso in un atteggiamento razionalista, secondo cui può essere considerato vero soltanto ciò che possiamo misurare, sperimentare, toccare, come se la vita fosse ridotta unicamente alla materia e a ciò che è visibile. In tutti e due i casi i confini sono ristretti. Sul primo versante, abbiamo la stanchezza dello spirito, che ci consegna all’incertezza permanente e all’assenza di passione, come se fosse inutile cercare un senso in una realtà che rimane incomprensibile. Questo sentimento emerge spesso in alcuni personaggi delle opere di Franz Kafka, che ha descritto la condizione tragica e angosciante dell’uomo del Novecento. In un dialogo tra due personaggi di un suo racconto, troviamo questa affermazione: «Credo che lei non si occupi della verità soltanto perché è troppo faticosa”. Cercare la verità è faticoso, perché ci costringe a uscire da noi stessi, a rischiare, a farci delle domande. E quindi ci affascina di più, nella stanchezza dello spirito, una vita superficiale che non si pone troppi interrogativi; così come allo stesso modo ci attira di più una “fede” facile, leggera, confortevole, che non mette mai nulla in discussione. Sul secondo versante, invece, abbiamo il razionalismo senz’anima, in cui oggi rischiamo di cadere nuovamente, condizionati dalla cultura tecnocratica che ci porta a questo. Quando si riduce l’uomo alla sola materia, quando la realtà viene costretta dentro i limiti di ciò che è visibile; quando la ragione è soltanto quella matematica, quando la ragione è quella “da laboratorio”, allora viene meno lo stupore, e quando manca lo stupore non si può pensare; lo stupore è l’inizio della filosofia, è l’inizio del pensiero , viene meno quella meraviglia interiore che ci spinge a cercare oltre, a guardare il cielo, a scovare nella verità nascosta che affronta le domande fondamentali: perché vivo? che senso ha la mia vita? qual è lo scopo ultimo e l’ultima mèta di questo viaggio? Si chiedeva Romano Guardini: «Perché l’uomo, nonostante tutto il progresso, è tanto sconosciuto a sé stesso e lo diviene sempre più? Perché ha perduto la chiave per comprendere l’essenza dell’uomo. La legge della nostra verità dice che l’uomo si riconosce soltanto partendo dall’alto, al di sopra di lui, da Dio, perché egli trae l’esistenza solo da Lui». Cari Professori, contro la stanchezza dello spirito e il razionalismo senz’anima, impariamo anche noi a pregare come Iabes: “Signore, allarga i nostri confini!”. Chiediamo che Dio benedica il nostro lavoro, al servizio di una cultura capace di affrontare le sfide di oggi. Lo Spirito Santo che abbiamo ricevuto in dono ci spinge a cercare, ad aprire gli spazi del nostro pensare e del nostro agire, fino a condurci alla verità tutta intera. Abbiamo la consapevolezza “che non sappiamo ancora tutto”, ma, al tempo stesso, è proprio questo limite che deve spingervi sempre in avanti, aiutarvi a mantenere accesa la fiamma della ricerca e a rimanere una finestra aperta al mondo di oggi. E, a questo proposito, voglio dirvi sinceramente: grazie! Grazie perché, allargando i confini, vi siete fatti spazio accogliente per tutti i rifugiati che sono costretti a fuggire dalle loro terre, tra mille insicurezze, enormi disagi e sofferenze a volte atroci. Grazie. E mentre alcuni invocano il rafforzamento dei confini, voi, in quanto comunità universitaria, i confini li avete allargati. Grazie. Avete aperto le braccia per accogliere queste persone segnate dal dolore, per aiutarle a studiare e a crescere. Grazie. Ci serve questo: una cultura che allarga i confini, che non è “settaria” , e voi non siete settari, grazie! , né si pone al di sopra degli altri ma, al contrario, sta nella pasta del mondo portandovi dentro un lievito buono, che contribuisce al bene dell’umanità. Questo compito, questa “speranza più grande”, è affidata a voi!. Un teologo di questa terra, figlio e docente di questa Università, ha affermato: «Siamo noi il roveto ardente che permette a Dio di manifestarsi. Conservate accesa la fiamma di questo fuoco; allargate i confini! Siate inquieti, per favore, con l’inquietudine della vita, siate cercatori della verità e non spegnete mai la passione, per non cedere all’accidia del pensiero, che è una malattia molto brutta. Siate protagonisti nel generare una cultura dell’inclusione, della compassione, dell’attenzione verso i più deboli e verso le grandi sfide nel mondo in cui viviamo. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!”.
Concluso il Suo discorso, dopo la benedizione e la consegna di due doni, il Pontefice ha raggiunto i Saloni del Rettorato, dove ha salutato alcuni giovani rifugiati di un centro sanitario. Poi, dopo un giro in golf-cart tra i presenti, si è trasferito nella piazza principale di Lovanio per salutare le circa 20 mila persone presenti e presso il Grote Markt, dove ha salutato le 5000 persone radunate ad attenderlo. Rientrato in Nunziatura, il Santo Padre ha incontrato 17 persone, vittime di abuso da parte di membri del clero in Belgio. Nel corso dell’incontro, ciascuno ha raccontato la propria storia e il proprio dolore, esprimendo le proprie attese riguardo l’impegno della Chiesa contro gli abusi.
Papa Francesco ha espresso lor gratitudine per il coraggio dimostrato, e il sentimento di vergogna per quanto da loro sofferto da piccoli, prendendo nota delle richieste rivoltegli per poterle approfondire.
Nella mattinata di oggi, 28 settembre, invece, il Pontefice, dopo aver incontrato alcune autorità dell’Ue, e aver visitato alcuni senzatetto presso la chiesa di Saint Gilles a Bruxelles ,ha incontrato i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate, i Seminaristi e gli Operatori Pastorali, presso la Basilica del Sacro Cuore di Koekelberg.
Accolto dal Presidente della Conferenza Episcopale Belga, Mons. Luc Terlinden, Arcivescovo di Malines-Bruxelles, dal Rettore della Basilica, che gli ha porto la croce e l’acqua benedetta per l’aspersione e da due bambini che gli hanno offerto dei fiori, il Santo Padre ha attraversato la navata centrale e ha raggiunto l’altare.
Ricevuto il benvenuto del Presidente della Conferenza Episcopale del Belgio e ,ascoltate le testimonianze di un sacerdote, di una operatrice pastorale, di un teologo, di un rappresentante dei centri di accoglienza per vittime di abusi, di una religiosa e di un cappellano carcerario , Papa Francesco ha tenuto il Suo discorso, incentrato sulle parole evangelizzazione, gioia e misericordia, nel quale ha detto : “In questo crocevia che è il Belgio, voi siete una Chiesa “in movimento”. Infatti, da tempo state cercando di trasformare la presenza delle parrocchie sul territorio, di dare un forte impulso alla formazione dei laici; soprattutto vi adoperate per essere Comunità vicina alla gente, che accompagna le persone e testimonia con gesti di misericordia. Prendendo spunto dalle vostre domande, vorrei proporvi alcune tracce di riflessione attorno a tre parole: evangelizzazione, gioia, misericordia. La prima strada da percorrere è l’evangelizzazione. I cambiamenti della nostra epoca e la crisi della fede che sperimentiamo in Occidente ci hanno spinto a ritornare all’essenziale, cioè al Vangelo, perché a tutti venga nuovamente annunciata la buona notizia che Gesù ha portato nel mondo, facendone risplendere tutta la bellezza. La crisi, ogni crisi ,è un tempo che ci è offerto per scuoterci, per interrogarci e per cambiare. È un’occasione preziosa ,nel linguaggio biblico si dice kairòs, occasione speciale, come è successo ad Abramo, a Mosè e ai profeti. Quando sperimentiamo la desolazione, infatti, sempre dobbiamo chiederci quale messaggio il Signore ci vuole comunicare. E cosa ci fa vedere la crisi? Siamo passati da un cristianesimo sistemato in una cornice sociale ospitale a un cristianesimo “di minoranza”, o meglio, di testimonianza. E questo richiede il coraggio di una conversione ecclesiale, per avviare quelle trasformazioni pastorali che riguardano anche le consuetudini, i modelli, i linguaggi della fede, perché siano realmente a servizio dell’evangelizzazione. Anche ai preti è richiesto questo coraggio. Essere preti che non si limitano a conservare o gestire un patrimonio del passato, ma pastori, pastori innamorati di Cristo e attenti a cogliere le domande di Vangelo ,spesso implicite , mentre camminano con il Popolo santo di Dio; e noi camminiamo un po’ davanti, un po’ in mezzo e un po’ in fondo. E quando portiamo il Vangelo , il Signore apre i nostri cuori all’incontro con chi è diverso da noi. È bello, anzi è necessario che tra i giovani ci siano sogni e spiritualità diverse. Dev’essere proprio così, perché tanti possono essere i percorsi personali o comunitari, che ci conducono però alla stessa meta, all’incontro con il Signore: nella Chiesa c’è spazio per tutti , tutti, tutti! e nessuno dev’essere la fotocopia dell’altro. L’unità nella Chiesa non è uniformità, ma è trovare l’armonia delle diversità! .Il processo sinodale dev’essere un ritorno al Vangelo; non deve avere tra le priorità qualche riforma “alla moda”, ma chiedersi: come possiamo far arrivare il Vangelo in una società che non lo ascolta più o si è allontanata dalla fede? Chiediamocelo tutti. Seconda strada: la gioia. Non parliamo qui delle gioie legate a qualcosa di momentaneo, né possiamo assecondare i modelli dell’evasione e del divertimento consumistico. Si tratta di una gioia più grande, che accompagna e sostiene la vita anche nei momenti oscuri o dolorosi, e questo è un dono che viene dall’alto, da Dio. È la gioia del cuore suscitata dal Vangelo: è sapere che lungo il cammino non siamo soli e che anche nelle situazioni di povertà, di peccato, di afflizione, Dio è vicino, si prende cura di noi e non permetterà alla morte di avere l’ultima parola. Dio è vicino, vicinanza. Molto prima di diventare Papa, Joseph Ratzinger scrisse che una regola del discernimento è questa: «Dove manca la gioia, dove l’umorismo muore, qui non c’è nemmeno lo Spirito Santo e viceversa: la gioia è un segno della grazia» . È bello! E allora vorrei dirvi: che il vostro predicare, il vostro celebrare, il vostro servire e fare apostolato lasci trasparire la gioia del cuore, perché questo suscita domande e attira anche coloro che sono lontani. La gioia del cuore: non quel sorriso finto, del momento, la gioia del cuore. La gioia è la strada. Quando la fedeltà appare difficile, dobbiamo mostrare che essa è un “cammino verso la felicità”. E, allora, intravedendo dove conduce la strada, si è più pronti a iniziare il cammino. E terza via: la misericordia. Il Vangelo, accolto e condiviso, ricevuto e donato, ci conduce alla gioia ,perché ci fa scoprire che Dio è il Padre della misericordia, che si commuove per noi, che ci rialza dalle nostre cadute, che non ritira mai il suo amore per noi. Fissiamo questo nel cuore: mai Dio ritira il suo amore per noi. “Ma Padre, anche quando ho commesso qualcosa di grave?”. Mai Dio ritira il suo amore per te. Questo, davanti all’esperienza del male, a volte può sembrarci “ingiusto”, perché noi applichiamo semplicemente la giustizia terrena che dice: “Chi sbaglia deve pagare”. Tuttavia, la giustizia di Dio è superiore: chi ha sbagliato è chiamato a riparare i suoi errori, ma per guarire nel cuore ha bisogno dell’amore misericordioso di Dio. Non dimenticatevi: Dio perdona tutto, Dio perdona sempre; è con la sua misericordia che Dio ci giustifica, cioè ci rende giusti, perché ci dona un cuore nuovo, una vita nuova. Gli abusi generano atroci sofferenze e ferite, minando anche il cammino della fede. E c’è bisogno di tanta misericordia, per non rimanere col cuore di pietra dinanzi alla sofferenza delle vittime, per far sentire loro la nostra vicinanza e offrire tutto l’aiuto possibile, per imparare da loro a essere una Chiesa che si fa serva di tutti senza soggiogare nessuno. Sì, perché una radice della violenza consiste nell’abuso di potere, quando usiamo i ruoli che abbiamo per schiacciare gli altri o per manipolarli. E misericordia è una parola-chiave per i carcerati. Quando io entro in un carcere mi domando: perché loro e non io? Gesù ci mostra che Dio non si tiene a distanza dalle nostre ferite e impurità. Egli sa che tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato. Nessuno è perduto per sempre. È giusto, allora, seguire tutti i percorsi della giustizia terrena e i percorsi umani, psicologici e penali; ma la pena dev’essere una medicina, deve portare alla guarigione. Bisogna aiutare le persone a rialzarsi, a ritrovare la loro strada nella vita e nella società. Soltanto una volta nella vita di tutti ci è permesso guardare una persona dall’alto in basso: per aiutarla a rialzarsi. Solo così. Ricordiamoci: tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato, nessuno è perduto per sempre. Misericordia, sempre, sempre misericordia. Sorelle e fratelli, vi ringrazio. E nel salutarvi vorrei ricordare un’opera di Magritte, vostro illustre pittore, che si intitola “L’atto di fede”. Rappresenta una porta chiusa dall’interno, che però è sfondata al centro, è aperta sul cielo. È uno squarcio, che ci invita ad andare oltre, a volgere lo sguardo in avanti e in alto, a non chiuderci mai in noi stessi, mai in noi stessi. Questa è un’immagine che vi lascio, come simbolo di una Chiesa che non chiude mai le porte , per favore, non chiude mai le porte!, che a tutti offre un’apertura sull’infinito, che sa guardare oltre. Questa è la Chiesa che evangelizza, vive la gioia del Vangelo, pratica la misericordia. Sorelle e fratelli, camminate insieme, voi e lo Spirito Santo, insieme, e praticate la misericordia, per essere Chiesa così. Senza lo Spirito, non succede nulla di cristiano. Ce lo insegna la Vergine Maria, nostra Madre. Lei vi guidi e vi custodisca. Benedico tutti di cuore. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!”.
Terminato il discorso, dopo la benedizione e il canto finale, Papa Francesco ha salutato alcune persone con disabilità , le Autorità locali e i Sacerdoti. Poi, il Pontefice, si è recato nella cripta reale, sottostante la Chiesa di Nostra Signora di Laeken, dove sono raccolte le tombe di molti membri della Casa Reale del Belgio, dove è stato accolto dal Re e dalla Regina, e dove si è fermato davanti alla tomba di Re Baldovino per pregare.
Dopo il momento di raccoglimento, il Pontefice ha elogiato il coraggio di Baldovino nello scegliere di “lasciare il suo posto da Re per non firmare una legge omicida” e ha esortato i belgi a guardare a lui “in questo momento in cui si fanno strada leggi criminali”, auspicando che proceda la sua causa di beatificazione.
A seguire, rientrato in Nunziatura Apostolica, Papa Francesco ha salutato due famiglie di rifugiati, una cristiana , proveniente dalla Siria e una musulmana, proveniente da Gibuti, accolte dalla Comunità di Sant’Egidio e giunte in Belgio grazie all’attivazione di “corridoi umanitari”.
Nel pomeriggio, invece, il Santo Padre si è recato in auto presso Université Catholique de Louvain dove ha incontrato gli studenti e le studentesse.
Accolto dalla Rettrice dell’Università UCLouvain, Françoise Smets, dal Rettore dell’Università KULeuven, Luc Sels, dall’Arcivescovo di Malines-Bruxelles, Mons. Luc Terlinden, in qualità di Gran Cancelliere, dal Sindaco di Ottignies-Louvain-la Neuve , dal Governatore della Provincia, da un giovane che gli ha offerto dei fiori e da un gruppo di studenti con le bandiere , Papa Francesco è entrato nell’Aula Magna dove erano presenti alcuni membri del Consiglio rettorale e ha firmato il Libro d’Onore per poi raggiungere il Teatro dell’Aula Magna.
Qui, dopo il saluto di benvenuto della Rettrice, la proiezione di un video, e la lettura da parte degli studenti e delle studentesse di una Lettera a Lui indirizzata , il Pontefice ha pronunciato il Suo discorso, incentrato sulla speranza e sulle parole: riconoscenza, missione e fedeltà.
Il Santo Padre, quindi, ha detto: “Tra le questioni che voi affrontate, mi ha colpito quella sul futuro e l’angoscia. Vediamo bene quanto è violento e arrogante il male che distrugge l’ambiente e i popoli. Sembra non conoscere freno. La guerra è la sua espressione più brutale , voi sapete che in un Paese, che non nomino, gli investimenti che danno più reddito oggi sono le fabbriche delle armi, è brutto! , e sembra non conoscere freno questo: la guerra è un’espressione brutale; come lo sono anche la corruzione e le moderne forme di schiavitù. La guerra, la corruzione e le nuove forme di schiavitù. A volte ,questi mali inquinano la stessa religione, che diventa uno strumento di dominio. State attenti! Ma questa è una bestemmia. L’unione degli uomini con Dio, che è Amore salvifico, così diventa schiavitù. Persino il nome del padre, che è rivelazione di cura, diventa espressione di prepotenza. Dio è Padre, non padrone; è Figlio e Fratello, non dittatore; è Spirito d’amore, e non di dominio. Noi cristiani sappiamo che il male non ha l’ultima parola e su questo dobbiamo essere forti: il male non ha l’ultima parola , che ha, come si dice, i giorni contati. Questo non toglie il nostro impegno, anzi lo aumenta: la speranza è una nostra responsabilità. Una responsabilità da prendere perché la speranza mai delude, mai delude. E questa certezza vince quella coscienza pessimistica, lo stile della Turandot… La speranza mai delude!. E ora, tre parole: riconoscenza, missione, fedeltà. Il primo atteggiamento è la riconoscenza, perché questa casa ci è donata: non siamo padroni, siamo ospiti e pellegrini sulla terra. Il primo a prendersene cura è Dio: noi siamo anzitutto curati da Dio, che ha creato la terra , dice Isaia , “non come orrida regione, ma perché fosse abitata”. E pieno di stupita riconoscenza è il salmo ottavo: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, / la luna e le stelle che tu hai fissato, / che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, / il figlio dell’uomo, perché te ne curi?». La preghiera del cuore che mi viene è: Grazie, o Padre, per il cielo stellato e per la vita in questo universo!. Il secondo atteggiamento è la missione: noi siamo nel mondo per custodire la sua bellezza e coltivarla per il bene di tutti, soprattutto dei posteri, il prossimo nel futuro. Ecco il “programma ecologico” della Chiesa. Ma nessun piano di sviluppo potrà riuscire se restano arroganza, violenza, rivalità nelle nostre coscienze, anche nella nostra società. Occorre andare alla fonte della questione, che è il cuore dell’uomo. Dal cuore dell’uomo viene anche la drammatica urgenza del tema ecologico: dall’arrogante indifferenza dei potenti, che mette sempre davanti l’interesse economico. Interesse economico: i soldi. Io ricordo una cosa che mia nonna mi diceva sempre: “Stai attento nella vita perché il diavolo entra dalle tasche”. L’interesse economico. Finché sarà così, ogni appello sarà messo a tacere o verrà accolto solo nella misura in cui è conveniente al mercato. Questa “spiritualità”, così, del mercato. E finché il mercato resta al primo posto, la nostra casa comune subirà ingiustizie. La bellezza del dono chiede la nostra responsabilità: siamo ospiti, non despoti. A questo proposito, cari studenti, considerate la cultura come coltivazione del mondo, non solo delle idee. Qui sta la sfida dello sviluppo integrale, che richiede il terzo atteggiamento: la fedeltà. Fedeltà a Dio e fedeltà all’uomo. Questo sviluppo infatti riguarda tutte le persone in tutti gli aspetti della loro vita: fisica, morale, culturale, sociopolitica; e ad esso si oppone qualsiasi forma di oppressione e di scarto. La Chiesa denuncia questi soprusi, impegnandosi anzitutto nella conversione di ogni proprio membro, di noi stessi, alla giustizia e alla verità. In questo senso, lo sviluppo integrale fa appello alla nostra santità: è vocazione alla vita giusta e felice, per tutti. E adesso, l’opzione da fare è dunque tra manipolare la natura e coltivare la natura. Un’opzione così: o manipolo la natura o coltivo la natura. A partire dalla nostra natura umana ,pensiamo all’eugenetica, agli organismi cibernetici, all’intelligenza artificiale. L’opzione tra manipolare o coltivare riguarda anche il nostro mondo interiore. Pensare all’ecologia umana ci porta a toccare una tematica che sta a cuore a voi e prima ancora a me e ai miei Predecessori: il ruolo della donna nella Chiesa. Pesano qui violenze e ingiustizie, insieme a pregiudizi ideologici. Perciò bisogna ritrovare il punto di partenza: chi è la donna e chi è la Chiesa. La Chiesa è donna, non è “il” Chiesa, è “la” Chiesa, è la sposa. La Chiesa è il popolo di Dio, non un’azienda multinazionale. La donna, nel popolo di Dio, è figlia, sorella, madre. Come io sono figlio, fratello, padre. Queste sono le relazioni, che esprimono il nostro essere a immagine di Dio, uomo e donna, insieme, non separatamente! Infatti le donne e gli uomini sono persone, non individui; sono chiamati fin dal “principio” ad amare ed essere amati. Una vocazione che è missione. E da qui viene il loro ruolo nella società e nella Chiesa. Ciò che è caratteristico della donna, ciò che è femminile, non viene sancito dal consenso o dalle ideologie. E la dignità è assicurata da una legge originaria, non scritta sulla carta, ma nella carne. La dignità è un bene inestimabile, una qualità originaria, che nessuna legge umana può dare o togliere. A partire da questa dignità, comune e condivisa, la cultura cristiana elabora sempre nuovamente, nei diversi contesti, la missione e la vita dell’uomo e della donna e il loro reciproco essere per l’altro, nella comunione. Non l’uno contro l’altro, questo sarebbe femminismo o maschilismo, e non in opposte rivendicazioni, ma l’uomo per la donna e la donna per l’uomo, insieme. Ricordiamo che la donna si trova al cuore dell’evento salvifico. È dal “sì” di Maria che Dio in persona viene nel mondo. Donna è accoglienza feconda, cura, dedizione vitale. Per questo è più importante la donna dell’uomo, ma è brutto quando la donna vuol fare l’uomo: no, è donna, e questo è “pesante”, è importante. Apriamo gli occhi sui tanti esempi quotidiani di amore, dall’amicizia al lavoro, dallo studio alla responsabilità sociale ed ecclesiale, dalla sponsalità alla maternità, alla verginità per il Regno di Dio e per il servizio. Non dimentichiamo, lo ripeto: la Chiesa è donna, non è maschio, è donna. Voi stessi siete qui per crescere come donne e come uomini. Siete in cammino, in formazione come persone. Perciò il vostro percorso accademico comprende diversi ambiti: ricerca, amicizia, servizio sociale, responsabilità civile e politica, espressioni artistiche. Penso all’esperienza che vivete ogni giorno, in questa Università Cattolica di Lovanio, e condivido tre aspetti, semplici e decisivi, della formazione: come studiare? perché studiare? e per chi studiare?. Come studiare: c’è non solo un metodo, come in ogni scienza, ma anche uno stile. Ogni persona può coltivare il proprio. In effetti, lo studio è sempre una via alla conoscenza di sé e degli altri. Ma c’è anche uno stile comune, che si può condividere nella comunità universitaria. Si studia insieme: grazie a chi ha studiato prima di me , docenti, compagni più avanti , con chi studia al mio fianco, in aula. La cultura come cura di sé comporta una cura vicendevole. Non c’è la guerra fra studenti e professori, c’è il dialogo, alle volte è un dialogo un po’ intenso, ma c’è il dialogo e il dialogo fa crescere la comunità universitaria. Secondo: perché studiare. C’è un motivo che ci spinge e un obiettivo che ci attrae. Bisogna che siano buoni, perché da loro dipende il senso dello studio, dipende la direzione della nostra vita. A volte studio per trovare quel tipo di lavoro, ma finisco per vivere in funzione di quello. Diventiamo noi la “merce”, vivere in funzione del lavoro. Non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere; è facile dirlo, ma comporta impegno metterlo in pratica con coerenza. E questa parola coerenza è molto importante per tutti, ma specialmente per voi studenti. Voi dovete imparare questo atteggiamento della coerenza, essere coerenti. Terzo: per chi studiare. Per sé stessi? Per rendere conto ad altri? Studiamo per essere capaci di educare e servire altri, anzitutto col servizio della competenza e dell’autorevolezza. Prima di chiederci se studiare serve a qualcosa, preoccupiamoci di servire qualcuno. Una bella domanda che uno studente universitario può fare: a chi servo io, a me stesso? Oppure ho il cuore aperto per un altro servizio? Allora il titolo universitario attesta una capacità per il bene comune. Studio per me, per lavorare, per essere utile, per il bene comune. E questo deve essere molto bilanciato, molto bilanciato!. Cari studenti, è una gioia per me condividere con voi queste riflessioni. E mentre lo facciamo percepiamo che c’è una realtà più grande che ci illumina e ci supera: la verità. Cosa è la verità? Pilato aveva fatto questa domanda. Senza la verità, la nostra vita perde senso. Lo studio ha senso quando cerca la verità, quando cerca di trovarla, ma con animo critico. Ma la verità, per trovarla, ha bisogno di questo atteggiamento di criticità, così possiamo andare avanti. Lo studio ha senso quando cerca la verità, non dimenticatevi. E cercandola capisce che siamo fatti per trovarla. La verità si fa trovare: è accogliente, è disponibile, è generosa. Se rinunciamo a cercare insieme la verità, lo studio diventa strumento di potere, di controllo sugli altri. E io vi confesso che mi rattrista quando trovo, in qualsiasi parte del mondo, università soltanto per preparare gli studenti a guadagnare o ad avere potere. E’ troppo individualistico, senza comunità. L’alma mater è la comunità universitaria, l’università, quello che ci aiuta a fare società, a fare fratellanza. Non serve lo studio senza (cercare la verità) insieme, non serve, ma domina. Invece la verità ci rende liberi. Cari studenti, volete la libertà? Siate ricercatori e testimoni di verità! Cercando di essere credibili e coerenti attraverso le più semplici scelte quotidiane. Così questa diventa, ogni giorno, quello che vuole essere, una Università cattolica! E andate avanti, andate avanti, e non entrare nelle lotte con delle dicotomie ideologiche, no. Non dimenticate: la Chiesa è donna e questo ci aiuterà tanto. Grazie di questo incontro. Grazie! Vi benedico di cuore, voi e il vostro cammino di formazione. E per favore vi chiedo di pregare per me. E se qualcuno non prega o non sa pregare o non vuol pregare almeno mi mandi buone ondate, che c’è bisogno! Grazie!”.
Dopo il discorso di Papa Francesco e, dopo un momento musicale, la comunità universitaria ha consegnato al Pontefice una pianta rappresentante l’albero dei desideri , emblema legato al seicentesimo anniversario della fondazione dell’Università. Il Santo Padre ha lasciato quindi un messaggio scritto: “ Nella grande comunità universitaria di Lovanio, i giovani diventino appassionati cercatori del vero, del bello e del bene, con mente e cuore aperti e mani laboriose, esperti di dialogo e artigiani di pace, per dare ai loro sogni la forma del servizio”.
Impartita la benedizione finale, il Pontefice ha raggiunto la terrazza antistante l’Aula Magna dove ha ricevuto in dono dalla Rettrice e da due studenti un berretto studentesco, per poi congedarsi e fare un giro sulla golf-cart all’esterno dell’Università, per salutare le persone in attesa.
In seguito, Papa Francesco ha raggiunto in auto il Collegio Saint-Michel per l’incontro privato con i Membri della Compagnia di Gesù presenti in Belgio.
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