Appunti, di un’ estate trascorsa a Vico Equense.
di Federica Marego lunedì 2 settembre 2019
“L’estate sta finendo e un anno se ne va…”, cantavano i Righeira nel 1985, regalandoci uno di quei ritornelli tormentone che , puntualmente, a distanza di oltre trent’anni, al termine della stagione estiva , ognuno di noi canta, più o meno malinconicamente sotto la doccia. Sì, perché l’estate, è fatta così: come tutte le cose belle passa in fretta, lasciandoci dentro quel senso di tristezza, che è nostalgia per la spensieratezza provata nei giorni di vacanza e di riposo e per le emozioni suscitate in noi dal ritorno nei posti del cuore, piuttosto che dalla scoperta di una località prima ignota, ricca di paesaggi, colori e suggestioni.
Ne è un esempio perfetto: Vico Equense, la cittadina della penisola sorrentina, posta tra il Golfo di Napoli, i monti Lattari e il Golfo di Salerno, confinante con i comuni di Castellammare di Stabia, Meta, Piano di Sorrento, Pimonte e Positano, in cui abbiamo trascorso il tempo dedicato all’ozio, che non è mai vuoto, noia, mancanza di pensiero, ma anzi, al contrario, riflessione, contemplazione stupita della natura e del mondo.
Posizionato all’inizio della costiera sorrentina, nella parte meridionale del Golfo partenopeo, su un blocco tufaceo e calcareo, a strapiombo sul mar Tirreno, il piccolo Comune marinaro è dominato dalla vetta del Monte Sant’Angelo, la cima più alta dell’intera catena dei Monti Lattari, che si affaccia per un versante sulle acque dell’arcipelago de Li Galli, lungo la costiera amalfitana.
Le prime tracce di insediamento umano nell’area risalgono all’ VII secolo a.C, e consistono in oggetti appartenenti a corredi funerari di una necropoli scoperta nel 1860, mentre i primi testi scritti in cui compaiono citazioni sul territorio risalgono al I secolo a.C, quando il console e proconsole Silio Italico, fece riferimento nel suo poema “Punica” a un guerriero proveniente dall’Aequana. Aequa, infatti, è il borgo indicato in alcuni documenti medievali come rinserrato nel tratto di costa identificato oggi con la frazione di Seiano, che precede Vico Equense.
Al Medioevo, invece, risaliva un piccolo centro a pianta ippodamea (ovvero con schema ortogonale, ideato dall’architetto e urbanista greco Ippodamo di Mileto), collocato sul pianoro, dove ora sorge l’attuale città, indicato, in alcuni testi del 1213 con il nome di “Vicum dicitur”(“E’ detto: Vico”) e spopolatosi alla fine dell’ “Età di Mezzo”.
Ripopolatosi fra il Duecento e il Trecento, grazie agli Aragonesi e agli Angioini, che condussero la popolazione sulla parte più alta del borgo marinaro di Aequa , per proteggerli dalle continue razzie da parte dei pirati, il pianoro fu dotato di mura , al cui interno fu edificata la Cattedrale con l’episcopio annesso e il castello.
Nei secoli successivi poi, sorsero e si svilupparono sui monti circostanti altre frazioni (Arola, Bonea, Fornacelle, Massaquano, Moiano, Monte Faito, Montechiaro, Pacognano, Patierno, Pietrapiana, Preazzano, Sant’Andrea, Seiano , Ticciano, San Salvatore, Santa Maria del Castello) , spesso intorno a chiese e piccoli borghi, ma fu solo nel Novecento che si procedette a un vero e proprio riassetto urbanistico, con la rimozione delle mura e l’apertura della strada che collegava Castellammare di Stabia con Sorrento, dando vita a un turismo in massima parte estivo, di tipo balneare e termale, (essendo presente a poca distanza , il complesso termale di Scrajo), favorito anche dalla costruzione, nel 1906, della linea tranviaria Castellammare di Stabia-Sorrento, sostituita nel 1948 dalla Ferrovia Torre Annunziata-Sorrento, che collegava la penisola sorrentina con Napoli.
Quindi, divenuto centro turistico molto frequentato fra gli anni Sessanta e Settanta, fu oggetto di un notevole sviluppo edilizio,interrotto soltanto dal terremoto del 1980, che causò danni ingenti, successivamente riparati.
Tre i luoghi di interesse artistico che caratterizzano questo tranquillo borgo sul mare ,scosso solo nei mesi estivi dalla confusione dei vacanzieri e dei turisti: la chiesa della Santissima Annunziata, la chiesa dei Santi Patroni Ciro e Giovanni e il Castello Giusso.
La chiesa della Santissima Annunziata , costruita agli inizi del XIV secolo, per volere del Vescovo Giovanni Cimino, divenuta in seguito sede vescovile e cattedrale della diocesi di Vico Equense fino al 1818, anno della sua soppressione, sorge su un costone roccioso a picco sul mare e l’interno rappresenta uno dei rari esempi di architettura gotica della penisola sorrentina, a fronte di una facciata in stile barocco, ricostruita nel XVIII secolo su commissione del Vescovo Paolino Pace.
Chiusa a partire dal 1980 per vent’anni, a causa dei danni subiti dal terremoto dell’Irpinia, è stata restaurata e riaperta il 26 agosto del 1995.
Osservando la facciata , vediamo che è divisa in due da una trabeazione : la parte inferiore presenta due coppie di lesene ai lati del portale e una lesena all’estremità, mentre la parte superiore riprende le due coppie di lesene della sezione sottostante e reca al centro un finestrone sormontato da un lucernaio. A conclusione della facciata, poi, una volta a botte sulla quale si erge una Croce in ferro.
Il portale di ingresso, infine, è costituito da due porte in bronzo, raffiguranti un “Cristo ieratico” , commissionate all’inizio degli anni Ottanta e realizzate dallo scultore Michele Attanasio che le dedicò al Papa santo Giovanni Paolo II.
Entrando , scorgiamo tre navate, una centrale e due laterali, divise da sei pilastri in tufo, scandite da cappelle, nelle quali si conservano tele di Giuseppe Bonito, e di Jacopo e Francesco Palumbo e l’urna funeraria del giurista e intellettuale settecentesco Gaetano Filangieri, autore de “La Scienza della Legislazione”, un piano di riforma giuridica secondo canoni illuministici concepito per una monarchia illuminata , il quale, ammalatosi di tubercolosi , trascorse gli ultimi anni della sua vita proprio a Vico Equense, dove morì , a soli trentacinque anni, il 20 luglio del 1788.
La zona dell’altare maggiore, invece, è a forma di abside pentagonale, con volta a costolone, che in origine presentava un affresco di cui restano pochi frammenti, trasferiti nella cappella laterale, che raffigurano la “Crocifissione e due Santi”, mentre l’ “Annunciazione” di Giuseppe Bonito, databile al 1733, affiancata ai lati da episodi della vita di Maria, dipinti da Jacopo Cestaro, adorna la mensa, non originale dell’altare maggiore. Gli “Evangelisti”, raffigurati in quattro tele, commissionate dal Vescovo Paolino Pace al pittore Francesco Palumbo, abbelliscono, invece, gli spicchi dell’abside.
Quattro, le tele collocate nella navata centrale , che hanno per soggetti gli Apostoli : Andrea, Pietro, Giacomo e Taddeo.
In una cappella della navata destra è posto poi un Crocifisso ligneo, decorato con pittura di scuola giottesca, mentre le cappelle che delimitano la navata sinistra sono dedicate a Sant’Antonio, alla Madonna del Rosario con Bambino, al Sacro Cuore di Gesù, a San Giuseppe col Bambino e a Sant’Anna.
Diverse, le opere presenti, tra cui: l’urna funeraria del vescovo Cimino, caratterizzata da un pluteo romanico, abbellito con un cavallo alato e una lastra in marmo bianco, con rappresentazioni della “Madonna col Bambino in braccio”, “San Paolo e San Luca” e opere pittoriche di Armando Di Stefano raffiguranti “Cristo alla colonna”, “la visita di Maria Elisabetta e San Gennaro Repubblicano”.
La sacrestia, in stile gotico, ma con influssi neoclassici del XVIII secolo, presenta all’interno trentaquattro affreschi rappresentanti i Vescovi di Vico (eccetto Michele Natale, morto impiccato per aver aderito alla Repubblica Napoletana, rimpiazzato da un putto che intima di fare silenzio), voluti da Monsignor Pace e realizzati da Francesco Palumbo. La cupola, scandita da otto finestre , reca al centro una tempera raffigurante la “Colomba dello Spirito Santo” e una balaustra abbellita da marmi policromi.
Il campanile , in ultimo, databile al XVI secolo, e voluto da Paolo Regio è a pianta quadrata , con arco sotto il quale passa la strada d’accesso alla chiesa ed è diviso in tre ordini, culminando con una terrazza merlata, ospitante due campane consacrate nel 1958.
Spostandoci invece verso il centro storico della cittadina, raggiungiamo la chiesa dei Santi Ciro e Giovanni,rispettivamente Santo patrono e conpatrono della città.
Struttura costruita nel 1486 su un terreno occupato da una villa romana, fu utilizzata fino al 1608 come sede del Parlamento locale per poi essere riedificata nel 1696 per via del terremoto che la danneggiò. La nuova costruzione avviata all’inizio del XVIII secolo e terminata nel 1715, fu inaugurata dal Vescovo Tommaso d’Aquino, come rievoca un’iscrizione posta all’ingresso, e consacrata dal Vescovo Paolino Pece nel 1774.
Più volte restaurata e ampliata fra il 1925 e il 1980, la chiesa, in stile barocco , presenta una facciata suddivisa in tre scomparti da due trabeazioni : la parte inferiore, con il portale d’ingresso, incastonato in una cornice di tufo, la parte centrale, con al centro un ampio finestrone, e la parte superiore adornata da una cornice in tufo, sormontata da una Croce in ferro.
L’interno , invece, è a croce latina, con una navata centrale e sette cappelle laterali dedicate al Crocifisso, all’Addolorata, a Sant’Anna , alla Madonna del Rosario , a San Vincenzo Ferrer, alle anime del Purgatorio e a San Domenico.
L’altare maggiore, in marmo, realizzato da Gaetano Belli, è stato consacrato il 4 dicembre del 1785 e rifatto seguendo le regole del Concilio Vaticano II (celebrazione del sacerdote non più di spalle alla platea, verso Oriente e ,dunque, verso il Signore, ma frontale).
Molteplici le opere di rilievo tra le quali: la statua di legno dell’Immacolata, realizzata nella prima metà del XVIII secolo da Francesco Antonio Pisano e custodita in una delle cappelle laterali , una tela rappresentante la “Deposizione” , dipinta da Antonio Asturi e collocata nella parte destra del transetto e i busti in argento seicentesco di San Ciro e di San Giovanni (quest’ultimo realizzato nel 2008 da Andrea Cuomo), usati come reliquiari.
Notevoli , le maioliche che decorano la cupola, mentre il campanile , eretto nel 1873, su progetto dell’architetto Domenico D’Ordi, è diviso in tre ordini, con pinnacoli in stile orientale e una campana fusa nel 1894. Presente, anche un organo risalente al 1930.
Percorrendo la strada che dal centro storico del borgo conduce a Piazza Largo dei Tigli, non possiamo fare a meno di fermarci lungo la panoramica che comprende il Monte Sant’Angelo da una parte, il Golfo di Napoli al centro e il Castello Giusso.
E proprio a proposito del Castello, la tradizione vuole che fosse stato edificato da Carlo II d’Angiò sia come residenza privata sia come baluardo militare per difendere la cittadina, ma in realtà l’ipotesi più accreditata è che la fortezza fosse stata edificata fra il 1284 e il 1289 per volere del feudatario Sparano di Bari, come roccaforte militare, finanziata anche da Re Angioino. Passato,nel corso dei secoli, da Gabriele Curiale, paggio della corona d’Aragona, Ferrante Carafa, feudatario del paese nel 1568, Matteo Di Capua , appartenente alla famiglia dei Ravaschieri (feudatari di Vico Equense dal 1629 al 1806, anno in cui il re Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, abolì i feudi) e Nicola Amalfi alla famiglia Giusso, che lo acquistò nel 1822 per quattrocentomila ducati, nel 1935 fu ceduto alla Compagnia di Gesù e in ultimo,nel 1970, a privati.
Cinta muraria e terrazza sul mare, sono gli unici elementi rimasti della fisionomia originaria, arricchita nel XV secolo di tre torri , di cui una chiamata : “Torre Mastra”, di un ponte e di un fossato. Tuttavia, nel XVI secolo, due delle torri furono abbattute per far posto al Palazzo baronale.
Semidistrutto da un’invasione gotica e da attacchi pirateschi fra il 1604 e il XVII secolo, la fortezza fu ricostruita e restaurata per fungere da residenza signorile, i cui giardini furono quindi abbelliti da grotte , giochi d’acqua e piante secolari. L’interno, invece, fu impreziosito con sale per ospitare la collezione d’arte, poi perduta, di Matteo Di Capua.
In seguito, Luigi Giusso e il figlio Girolamo, ristrutturarono l’edificio dandogli la caratteristica colorazione rosa salmone ed affrescando i saloni come quello delle Armi e quello dei Ventagli, oltre alla piccola cappella privata intitolata a Santa Maria della Stella , la quale si trovava sullo stesso luogo in cui sorgeva una chiesa retta dai monaci benedettini, abbattuta per lasciar posto al castello, nel quale morì il giurista Gaetano Filangeri, che vi si era trasferito nel 1788 pensando che l’aria del posto avrebbe migliorato le sue condizioni di salute.
Restiamo ancora un po’ assorti a contemplare la meravigliosa vista di cui si può godere dallo spiazzo di Largo dei Tigli. La dolce malìa del Golfo partenopeo ci ha ipnotizzati, trasportandoci in una dimensione onirica. Lontano, è ormai il tram tram quotidiano, così come la confusione agostana dei bagananti. Siamo da soli, a tu per tu con il mare e con i pensieri. E’ l’inizio di un dialogo privo di parole, fatto di un linguaggio in codice, quello delle emozioni ,al termine del quale ci accorgiamo che la nostra vacanza è quasi giunta al capolinea.
Non possiamo tornare a casa, però, senza aver prima completato il nostro tour artistico-culturale e religioso per il borgo di Vico Equense, con la visita al Museo Mineralogico Campano, tra i più importanti siti scientifici della Regione.
Quindi, risaliamo la strada fino a Via San Ciro, dove , una volta attraversato il Chiostro dell’Istituto SS. Trinità e Paradiso, troviamo il nostro edificio.
Inaugurato il 22 ottobre del 1992 , la struttura ospita la collezione di minerali raccolta dall’Ingegner Pasquale Discepolo in oltre cinquant’anni di ricerca appassionata.
Esposti in 29 vetrine , i minerali presenti sono più di 3500 appartenenti a 1400 specie provenienti da tutto il mondo e donati da studiosi italiani e stranieri che hanno ulteriormente arricchito la raccolta. Particolarmente rilevanti, le sezioni dei minerali vesuviani, con i lapislazzuli del Monte Somma e cristalli di vesuvianite, rivenuti dopo l’ultima eruzione del vulcano nel 1944 , quella dei meteoriti, (corpi extraterrestri di varia composizione chimica cadute in diverse epoche, in molteplici località della Terra) , quella dei minerali fluorescenti, che sotto l’azione della luce ultravioletta assumono colori sgargianti e caleidoscopici, dal verde al viola, e infine, quella delle gemme, inaugurata nel marzo 2001, che conserva numerosi campioni donati dagli Architetti Ezio De Felice ed Eirene Sbriziolo.
Da 1997 poi , il Museo si è dotato di una sezione paleontologica , suddivisa in 4 vetrine nelle quali sono visibili fossili (dalle uova di dinosauro alla riproduzione di un cucciolo di dinosauro ribattezzato “Ciro” rinvenuto nella provincia di Benevento, passando per impronte di rettili, calchi di pesci e ambre contenenti insetti),appartenenti alle principali ere geologiche, mentre a partire dal 2003, grazie alle donazioni del Dottor Angelo Pesce, il sito ospita anche una sezione antropologia, articolata in 2 vetrine con strumenti in pietra lavorata dagli uomini primitivi del Paleolitico e del Neolitico , vissuti nell’area Sahariana, tra la Libia e il Ciad.
Presso il Museo, sostenuto dalla Fondazione Discepolo, costituita nel 1992 dalla famiglia dell’Ingegnere studioso, in collaborazione con il Comune di Vico Equense , dal 1999 si tiene il Premio scientifico “Capo d’Orlando”, dedicato ad una località fossilifera equense, attribuito fino ad oggi a scienziati di fama mondiale, come i premi Nobel John F.Nash e Riccardo Giacconi, a direttori di testate giornalistiche scientifiche , a divulgatori della scienza tramite Mass Media e a direttori o fondatori di musei scientifici, che hanno contraccambiato tenendo conferenze su loro studi ed attività.
Ora, il momento è proprio arrivato. Dobbiamo andar via. Dobbiamo tornare. Non siamo ancora a bordo del trenino che ci condurrà a Napoli , è già ci manca l’odore della salsedine portata dal caldo refolo di vento che attraversa le stradine del piccola città sulla costa sorrentina.
Mentre pensiamo al traffico e alla calca metropolitana che ci attendono al rientro in città, un’ultima suggestione ci rapisce, sottraendoci alle incombenze della partenza : è il ricordo della Processione dei Santi Ciro e Giovanni, i Santi patroni della città, rispettivamente un medico e un soldato, le cui reliquie sono state donate alla città nel 1686, avvenimento ricordato ogni anno dai vicani con la celebrazione della Festa Estiva.
Ancora negli occhi,infatti abbiamo le immagini della solenne Processione ( rito culminante della settimana di festa dedicata ai, Patroni), snodatasi per le strade del borgo e giunta fino alle Case Popolari di via Sconducci , e i colori scintillanti dei drappi ricamati , esposti in segno di ossequio sulle porte o sui balconi delle case dagli abitanti delle strade toccate dal passaggio dei busti dei Santi, issati su catafalchi, manifestazioni di devozione mantenute in vita e tramandate attraverso le generazioni , seguite dallo spettacolo conclusivo dei Fuochi a mare.
Ecco ciò che rende davvero unica la cittadina di Vico Equense : l’essere sospesa tra un presente frenetico e iperconnesso e un passato di tradizioni e di folklore, la cui memoria viene caparbiamente custodita dai suoi abitanti.
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