Quinta tappa del nostro tour per il Centro storico della città. Usciti dalla Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, ci incamminiamo lungo Via San Biagio dei Librai, fino ad arrivare a Via San Gregorio Armeno, la strada cardine, nota per via delle numerose botteghe di presepi artigianali, che taglia in due i decumani maggiore e inferiore. Qui, scorgiamo uno degli edifici religiosi più antichi e imponenti della città: la Chiesa di San Gregorio Armeno o di Santa Patrizia, parte del complesso monastico adiacente. Quindi, decidiamo di entrarvi per scoprire nuovi tesori.
di Federica Marengo sabato 5 ottobre 2019
E’ strano come , per anni, percorriamo certe strade senza accorgerci di alcuni particolari. Passiamo, ripassiamo, magari ci soffermiamo anche presso qualche negozio per fare acquisti, eppure i nostri occhi non si accorgono di quanta bellezza, si celi nascosta, mimetizzata, tra una bottega di oggetti artigianali e una tabaccheria. Proprio lì, rinserrata, lungo la via cardine, che taglia in due i decumani maggiore e inferiore e, per questo detta : Spaccanapoli, che l’Italia, ma forse il mondo intero, conosce come Via San Gregorio Armeno, la “via dei presepi e dei pastori”, scorgiamo qualcosa di cui non ci eravamo mai accorti.
Si tratta di una chiesa, la chiesa di San Gregorio Armeno, meglio conosciuta come la chiesa di San Patrizia e dell’adiacente complesso monastico omonimo.
Chiediamo allora a un artigiano, maestro nell’arte presepiale, da sempre ,con il suo negozio, tramandato di generazione in generazione ,anima del quartiere, di raccontarci la storia dell’edificio.
Ci dice che Via San Gregorio Armeno, la strada dove ci troviamo, si chiamava un tempo “Strada Nostriana” e prendeva il nome dal Vescovo Nostriano, che nel V°secolo d.C. fondò in zona il primo ospedale per i poveri e gli ammalati.
Ci dice anche che vi sarebbero due tesi sulla costruzione di una prima chiesa nell’area. La prima vorrebbe che l’edificio religioso fosse stato costruito intorno al 930 sulle rovine del tempio di Cerere, nel luogo che avrebbe ospitato il monastero fondato da Flavia Giulia Elena , madre dell’imperatore Costantino, di cui Santa Patrizia sarebbe stata una discendente.
La seconda, invece, più fondata, vorrebbe la costruzione risalente all’VIII° d.C. e avviata quando nel luogo giunsero un gruppo di monache dell’ordine basiliano costituitosi intorno alla futura Santa,che, in fuga da Costantinopoli per via dello scisma tra Chiesa latina e orientale, si stabilirono in città dopo la morte della religiosa , portando con loro le reliquie di San Gregorio Armeno (Patriarca di Armenia dal 257 al 331), minacciate dalla furia iconoclasta.
In epoca normanna, poi, l’edificio, costituì una vera e propria insula , grazie all’unificazione di quattro oratori circostanti dov’erano insediate le monache: San Sebastiano, San Salvatore, San Gregorio e San Pantaleone, quest’ultimo fondato alla metà dell’VIII° secolo d.C. dal Vescovo Stefano II°.
In questa fase, il monastero assunse i voti della regola benedettina e le religiose provvidero al sostentamento attraverso varie attività, tra cui: le donazioni di famiglie nobiliari napoletane (Pignatelli, Di Sangro,Minutolo e Caracciolo), le rette mensili pagate dalle stesse per ospitare le figlie degli aristocratici nell’educandato interno, la concessione in fitto di terreni di proprietà dell’istituto religioso, attraverso l’affitto e la resa di lotti di terra che le religiose affidavano in gestione a contadini che si occupavano della coltivazione e della distribuzione del raccolto.
Tuttavia, in peridi difficili, come quelli segnati da epidemie di peste o di colera oppure durante la guerra, nei quali le donazioni libere non bastavano, le monache solevano rivolgersi ai Re di Sicilia: nel 1170, infatti, la richiesta di aiuto fu inoltrata al Re Guglielmo II , che concesse alle religiose un terreno demaniale, mentre nel 1192 si rivolsero a Re Tancredi, che donò loro ogni anno risorse alimentari. Tali richieste proseguirono poi anche con le successive case regnanti, essendo il complesso monastico al centro delle attenzioni politico-sociali e culturali della città, basti pensare che il 3 marzo del 1443, Ferdinando I di Napoli, ricevette all’interno dell’edificio sia la benedizione per la successione al trono del padre, Alfonso V d’Aragona, sia il titolo di duca di Calabria.
Poi, nel 1566, dopo il Concilio di Trento, fu introdotto l’obbligo di clausura per le monache, fino ad allora inserite appieno nel tessuto sociale della città nella quale risiedevano, e nel 1572 l’insula religiosa fu ricostruita su progetto di Giovanni Francesco Mormando, eseguito da Giovan Battista Cavagna. I lavori, durante i quali le religiose non abbandonarono mai l’edificio , alloggiando di volta in volta nelle varie ali non interessate dai lavori, prevedevano, oltre il rifacimento dei corpi di fabbrica, la realizzazione della nuova chiesa, defilata rispetto al monastero, e del campanile, con l’aggiunta di due registri superiori al ponte di congiunzione dei due corpi di fabbrica claustrali.
Completato fra il 1573 e il 1574 dal Della Monica, il “nuovo monastero” fu ampliato grazie all’acquisto di alcuni edifici adiacenti. Quindi, ambienti come : le celle delle monache, la cucina , il refettorio e l’infermeria furono completamente rifatti.
Demolita, invece, la prima chiesa, più piccola rispetto alla nuova, in prossimità del centro del chiostro e realizzati entro il 1580 (poco dopo la consacrazione dell’edificio) : il nuovo portale d’ingresso, con lo scalone entrambi in piperno, la cupola maiolicata, la pavimentazione marmorea (ad opera dell’architetto Domenico Fontana) , cui si aggiunsero nel 1584: il soffitto cassettonato, decorato con dipinti di Teodoro d’Errico e intagli di vari artigiani napoletani e le cappelle laterali della navata (Cappella di San Giovanni Battista e quella del Crocifisso).
Nel 1606, invece, furono completati dal Cavagna la facciata e l’atrio con il soprastante coro delle monache, mentre nel 1610 fu realizzato ,da Gabriele Quaranta, il coro dietro l’abside, detto anche: “cappellone”, il cui altare maggiore è abbellito con una tela commissionata nel 1612 a Ippolito Borghese.
Altri restauri riguardanti la chiesa furono poi eseguiti fra il 1682 e il 1685 da Dionisio Lazzari, che realizzò le balaustre di alcune cappelle laterali e altre decorazioni marmoree interne, come l’ancona marmorea che incornicia la tavola dell’Ascensione di Giovanni Bernardo Lima, realizzata nel 1574.
Nel Seicento, poi, fu restaurato anche il campanile della chiesa, che assunse l’aspetto attuale.
Intorno al 1745, invece, vi furono altri interventi di rifacimento in stile Rococò affidati a Nicola Tagliacozzi Canale, che realizzò gli intagli del soffitto della navata, le grate del coro delle monache, gli stucchi e le dorature interne, i cancelletti in ottone delle cappelle e le balaustre di entrambi i lati.
Agli inizi dell’Ottocento, quando il Monastero benedettino annesso , grazie alla sua ricchezza, riuscì a sottrarsi alla soppressione stabilita, mediante editto, dal Re di Napoli, Gioacchino Murat , furono portate nella chiesa le reliquie provenienti dagli altri monasteri soppressi, come quelle conservate nella chiesa dei Santi Marcellino e Festo o quelle custodite in Santa Maria Doonnaromita, che si aggiunsero alle reliquie di San Giovanni Battista , portate nell’edificio già nel 1577 dalla chiesa di Sant’Arcangelo a Baiano.
Dal 1864, dopo l’Unità d’Italia, nella chiesa furono trasferite anche le spoglie di Santa Patrizia, provenienti dalla chiesa dei Santi Nicandro e Marciano, dando vita, a partire da quel momento, al rito dello scioglimento del sangue della santa. Da qui, l’intitolazione dell’edificio religioso alla Santa di Costantinopoli.
Nei primi decenni del Novecento, invece, le monache benedettine, sempre più povere e ridotte nel numero, non riuscirono più a provvedere al sostentamento del monastero, malgrado gli aiuti dei Re d’Italia, tanto che il Comune riuscì a scorporare la struttura in più plessi, acquistati per crearvi biblioteche, musei e scuole pubbliche.
Per evitare di perdere la proprietà del sito, allora, l’ultima badessa, Giulia Caravita, dei Principi di Sirignano, acconsentì all’ingresso nel Monastero della congregazione delle Suore crocifisse adoratrici dell’Eucarestia, che prese possesso dell’edificio il 4 dicembre 1922, quando rimase attiva una sola monaca benedettina, l’ultima, Maria Peluso.
Negli anni Cinquanta, poi, fu ripresa l’attività educativa dell’istituto con la creazione della “Casa di educazione e istruzione per fanciulle orfane e bisognose di assistenza”, rivolta non più alle fanciulle appartenenti alla nobiltà napoletana, ma alle fanciulle orfane e bisognose di assistenza.
Osservando la facciata della chiesa, ci accorgiamo, che , seppur sproporzionata, la struttura manifesta una certa armonia, grazie anche a quattro lesene toscane , sormontate , nel secondo ordine,da arcate con tre finestroni, necessari per far luce al coro delle monache,e nel terzo, da un altro ordine architettonico, dov’è stato inserito il “coro d’inverno”.
L’atrio, austero e scuro, regge il piano del coro con quattro pilastri e le piccole volte ad essi collegate. Superando l’atrio, ai lati della porta di ingresso, scorgiamo iscrizioni che ricordano alcuni momenti della vita del complesso religioso come : la consacrazione della chiesa, avvenuta nel 1579, la dedica del Monastero al Santo armeno, Grgorio, e la visita di Papa Pio IX nel 1849.
Il portale principale risale invece al Cinquecento ed è un’opera marmorea con due colonne laterali e un timpano spezzato , al centro del quale vi è il busto, anch’esso in marmo, di San Gregorio Armeno, attribuibile all’operato degli allievi di Girolamo D’Auria, mentre i due battenti lignei intagliati , risalenti al 1586 ,presentano linee di ispirazione classica, raffiguranti in altorilievo San Lorenzo e Santo Stefano con quattro evangelisti, due per lato (eseguiti , presumibilmente, da Giovanni Andrea Magliulo).
Entrando, poi, vediamo una navata unica con cinque cappelle laterali, priva di transetto, terminante con un presbiterio a pianta rettangolare, sormontato da una semicupola.
L’edificio si compone di 52 affreschi realizzati da Luca Giordano, il quale, nel 1684 dipinse sulla controfacciata un ciclo di affreschi scandito in 3 scomparti: a sinistra ,troviamo l’Arrivo al lido di Napoli delle monache armene, al centro, la Traslazione del corpo di San Giorgio, a destra, l’Accoglienza dei napoletani alle monache, mentre fra il 1671 e il 1684 lo stesso pittore decorò la scodella della cupola con la Gloria di San Giorgio, gli spazi tra i finestroni del tamburo , dove rappresentò otto grandi figure di Sante benedettine, i peducci, in cui raffigurò Mosè, Giosuè, Melchisedec e Ruth, le scene tra le finestre del registro superiore della navata, rappresentanti la Vita di San Giorgio e gli affreschi raffiguranti coppie di virtù nelle lunette al di sopra delle cappelle laterali e la cupola .
Ai lati dell’ingresso, poi, si aprono due cappelle più piccole: a sinistra, quella dell’Immacolata, decorata con una tela d’altare raffigurante l’Immacolata, dipinta da Silvestro Buono, a destra, quella di San Francesco, che custodisce la tavola tardo-cinquecentesca della Madonna col Bambino e i Santi Francesco d’Assisi e Girolamo,attribuita ala pittore fiammingo Cornelis Smet.
Il soffitto, invece, iniziato fra il 1580 e il 1584, su commissione dell’allora badessa del monastero, Beatrice Carafa, completato agli inizi del Seicento con la realizzazione della parte soprastante il coro delle monache dietro la controfacciata e ,restaurato nel 1745, in stile Rococò, da Nicola Tagliacozzi Canale, presenta una monumentale decorazione a cassettoni.
Diversi, gli artisti che contribuirono al suo abbellimento: per primi, i pittori fiamminghi Teodoro d’Errico e Cornelis Smet ,che, con le loro botteghe, nel 1580, dipinsero le tavole degli ovali laterali raffiguranti la Vita di Santi benedettini, i quattro grandi ovali centrali, con le scene della Decollazione di Giovanni Battista, di San Gregorio che benedice la corte di Tiridate, la volta della navata con San Benedetto tra i Santi Mauro e Placido, e la volta che ricade sopra il coro delle monache con l’Incoronazione della Vergine. Le sculture, gli intagli e le dorature, invece, furono eseguite da Giovanni Andrea Magliulo, con altri artigiani napoletani.
Portandoci verso l’altare maggiore, appoggiato alla parete di fondo del presbiterio, scorgiamo al di sopra un’ancona marmorea realizzata e decorata nel 1682 da Dionisio Lazzari, la quale incornicia una tavola, con l’Ascensione, databile intorno al 1574 e, dipinta da Giovan Bernardo Lama.
Al di sopra, vi è poi una grata, che costituisce l’affaccio del coro dell’abside sulla chiesa, mentre nel timpano, abbellito con decori marmorei del Lazzari, vediamo, in un ovale, la scena dell’Orazione nell’orto, dipinta sempre dal Lama.
A sinistra della tribuna, invece, nella lunetta frontale, la scena di Mosè che fa scaturire l’acqua dalla rupe, dipinta nel 1699 da Giuseppe Simonelli, e, a destra, la grata di collegamento al comunichino delle monache, da cui la badessa era solita ascoltare la Messa e che , tramite un’apertura, consentiva alle monache di ricevere la Comunione.
Tale grata, in ottone, eseguita da Antonio Donadio nel 1692, su disegno di Giovan Domenico Vinaccia, è sormontata da una cornice marmorea realizzata nel 1695 da Bartolomeo e Pietro Ghetti, sopra la quale vi è una tela ad arco del 1699, sempre del Simonelli, rappresentante la Gloria dei putti.
In posizione sopraelevata, rispetto alla navata, due cori: uno , dietro l’altare, l’altro, dietro la controfacciata , al di sopra del porticato d’ingresso. Il primo è il coro dell’abside, conosciuto anche come: “cappellone”, decorato alle pareti con affreschi del Giordano, realizzati fra il 1679 e il 1681 e rappresentanti le Storie di San Benedetto. Il secondo, il coro delle monache, presenta un ingresso seicentesco decorato con un rilievo trecentesco in marmo, eseguito da uno scultore seguace di Tino di Camaino, rappresentante sul timpano la Madonna col Bambino , proveniente, con ogni probabilità dalla primitiva chiesa di San Gregorio.
La sacrestia, invece, a cui si accede dalla quinta cappella sul lato sinistro, ospita al centro della volta una tela del 1712 di Paolo De Matteis, che rappresenta l’Adorazione del Sacramento.
Distribuiti nella chiesa, ben cinque organi: due, inclusi nelle ricche cantorie lignee in stile Rococò progettate da Tagliacozzi Canale, uno risalente al 1737 e l’altro al 1742, entrambi sopra le arcate delle quinte cappelle della navata ed entrambi realizzati da Tomaso de Martino. Altri due organi, invece, si trovano all’interno del coro dell’abside, uno del 1769 di Domenico Antonio Rossi e l’altro di Francesco Cimino , databile fra Seicento e Settecento, mentre l’ultimo e il più recente, costruito nel 1960, è sopra il coro delle monache.
Quanto alle 10 cappelle laterali (5 per lato), la prima, sul lato sinistro, è la Cappella del Presepe, che presenta sull’altare una tela di Pompeo Landulfo, rappresentante la scena dell’Adorazione dei pastori, la seconda, quella del Crocifisso, ha sulla parete frontale un Crocifisso ligneo della seconda metà del XV secolo, realizzato da un autore ignoto e addossato ad una tela di Antonio Sarnelli, raffigurante un paesaggio e che presenta alle pareti laterali due tele settecentesche di Francesco Del Vecchio, donate dalle stesse monache alla chiesa nel 1769, rappresentanti l’Addolorata e il San Giovanni.
La terza cappella , invece, è intitolata, a San Giovanni Battista ed è abbellita con una tela di Giovanni Bernardo Lama ,raffigurante la Decollazione del santo, posta sopra l’altare con una cona marmorea, sorretta ai lati da due colonne in breccia di Francia , eseguita nel 1722 da Pietro Ghetti.
La quarta cappella, dedicata a San Benedetto, conserva sull’altare una Visione di San Benedetto di Francesco Fracazano, della prima metà del Seicento.
La quinta cappella, quasi spoglia, ospita ,infatti, solo una lastra tombale del Quattrocento, appartenente a una badessa del monastero e addossata alla parete frontale, dove , a sinistra , vi è una porta di accesso laterale alla chiesa e, a destra, una porta che conduce in sacrestia.
Spostandoci sul lato destro, la prima cappella , è quella dell’Annunciazione, che prende il nome dalla pala d’altare collocata sull’altare e realizzata nel 1644 da Pacecco De Rosa.
A seguire, la seconda cappella, di Sant’Antonio da Padova, è decorata con una pala raffigurante la Madonna con i Santi Pantaleone e Antonio da Padova, dipinta nel 1775 da Antonio Sarnelli.
La terza cappella, intitolata a San Gregorio Armeno, ospita due tele databili al 1635: San Gregorio gettato nel pozzo , a destra, e Tiridate implora San Gregorio, a sinistra, entrambe di Francesco Fracanzano, mentre alla parete frontale, troviamo San Gregorio e gli angeli di Francesco Di Maria, che, insieme con Niccolò De Simone, eseguì gli affreschi nella lunetta superiore con un’altra scena dei Martirii di San Gregorio; nella volta, invece, scorgiamo la Gloria di San Gregorio, sempre del Di Maria e del De Simone.
La quarta cappella del Rosario, conserva sulla parte principale la tela di Nicola Malinconico rappresentante la Madonna del Rosario con i Santi Domenico e Rosa da Lima, anteriore al 1692.
Nella quinta cappella, infine, dedicata a Santa Patrizia, sono conservate le reliquie della Santa, custodite all’interno di un reliquiario in oro e argento.
Così, termina la nostra visita nella chiesa di Santa Patrizia, parte del complesso monastico di San Gregorio Armeno, ma ci concediamo ancora un istante per osservare con attenzione il fasto barocco delle decorazioni, degli stucchi e dei marmi, che ammalia e stordisce , appena entrato, il visitatore, e per scattare ancora qualche istantanea, consapevoli, però, che nessuna fotografia potrà mai riprodurre l’effetto visivo di un simile concerto di forme e colori.
Usciti, continuiamo a percorrere l’antica via dei pastori e , arrivati in cima alla salita di San Gregorio Armeno, prima di mescolarci alla folla di turisti e passanti in piazza San Gaetano, ci fermiamo per un’altra sosta.
Decidiamo, infatti, di entrare nella Basilica di San Lorenzo Maggiore, la sesta tappa del nostro viaggio lungo i decumani e i cardi del Centro Storico, iniziato durante l’estate,appena trascorsa, e che proseguirà anche in autunno, perché l’Arte conosce una sola stagione: quella della bellezza.
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