Allestita a Palazzo Zevallos Stigliano dal 22 giugno e ,visitabile fino a domani, 29 settembre, l’esposizione dei quadri : “Compianto sul Cristo morto” di Sandro Botticelli e “Trasporto di Cristo al sepolcro” di Pedro Fernàndez, realizzati entrambi nei primi anni del Cinquecento. Le opere, giunte a Napoli nell’ambito della rassegna “L’Ospite illustre”,avviata nel 2016 e che propone nelle Gallerie d’Italia e al 36° piano del Grattacielo di Torino, di proprietà del gruppo bancario Intesa Sanpaolo, l’allestimento di opere di rilievo provenienti da prestigiosi musi italiani e internazionali, affrontano con stili figurativi diversi un episodio analogo attinto dalla vita di Cristo : quello della deposizione dalla Croce e del trasferimento al sepolcro. Tra i capolavori custoditi nel Palazzo nobiliare, poi, l’ultima opera di Caravaggio, dipinta nel 1610, prima di morire: il Martirio di Sant’Orsola.
di Federica Marengo sabato 28 settembre 2019
“L’Ospite illustre”, la rassegna avviata nel 2016 dal gruppo Intesa Sanpaolo, che propone nelle sedi di sua proprietà, le Gallerie d’Italia e il 36° piano del Grattacielo di Torino, l’esposizione di opere di rilievo provenienti dai musei italiani e internazionali, quest’anno ha fornito ai partenopei e ai turisti l’occasione per conoscere meglio e più da vicino, Palazzo Zevallos Stigliano, in via Toledo, una delle molteplici dimore nobiliari, che costellano il Centro Storico.
Infatti, è proprio all’interno dell’aristocratica residenza, appartenuta fra Seicento e Novecento, ai duchi Zevallos di Ostuni, ai principi Colonna-Stigliano, al banchiere Forquet e alla Banca Commerciale Italiana, che sono stati collocati i due quadri oggetto dell’allestimento di quest’anno: “Il compianto sul Cristo morto” del pittore fiorentino quattrocentesco Sandro Botticelli e il “Trasporto di Cristo al sepolcro” del coevo artista spagnolo Pedro Fernàndez, rappresentanti entrambi l’episodio della deposizione dalla Croce di Gesù e del trasferimento delle sue spoglie presso il sepolcro.
Entrambe le opere, sono state collocate negli ambienti limitrofi al salone centrale del palazzo. Per prima , all’inizio della nostra visita, abbiamo scorto la tela di Botticelli, giunta a Napoli , in prestito, dal Museo Poldi Pezzoli di Milano, intestato al nobile collezionista fondatore della casa-museo, che la acquistò il 12 marzo del 1879.
Il dipinto, databile intorno al 1501-1505, in origine una pala posta sull’altare della chiesa fiorentina di Santa Maria Maggiore, come testimoniato nel 1568 da Giorgio Vasari( quest’ultimo la descrive nei sui scritti come :“Pietà con figure piccole, allato alla cappella de’ Panciatichi, molto bella”), espressione della piena maturità artistica del pittore, allievo di Filippo Lippi, Antonio del Pollaiuolo e Andrea Verrocchio, raffigura con grande intensità emotiva il momento in cui Gesù, staccato dalla Croce, è in procinto di essere deposto nel sepolcro roccioso collocato in secondo piano rispetto alle figure.
La composizione, tra le più drammatiche realizzate da Botticelli, è costituita da un groviglio di linee di corpi ravvicinati che si fondono come a creare un vortice di disperazione, con sullo sfondo il sepolcro aperto, ed è incentrata sulla figura di Maria, che , mentre tiene sulle gambe il figlio morto, sviene per il dolore, sorretta per il braccio e per la testa da uno degli apostoli, Giovanni evangelista. A farle eco, le tre Marie: una regge il capo di Cristo e vi appoggia un sudario, una si copre il volto per il pianto, e la Maddalena stringe affettuosamente al volto i Suoi piedi. In alto, il proprietario del mausoleo, messo a disposizione del Cristo, Giuseppe d’ Arimatea, che leva al cielo la corona di spine e i chiodi della crocifissione avvolti in veli trasparenti, gesto enfatizzato dallo sfondo scuro e dallo sguardo rivolto verso l’alto, come a interrogare il cielo sul dramma della morte terrena, ancora avvolta nel mistero divino.
Le figure ,rinserrate intorno a Gesù, formano un gruppo compatto dall’aspetto piramidale scandito da figure con gli occhi quasi sempre chiusi o coperti con le mani per l’incapacità di sostenere la vista del corpo privo di vita del Salvatore.
Gesti e pose forzati rimandano all’ultima fase artistica del pittore , in cui la ricerca di forme realistiche è trascurata in favore dell’espressività a volte estrema, sottolineata dall’uso di colori intensi e contrastanti, per lo più primari (rosso, giallo e blu).
Segnato, infatti , dall’incontro con il frate domenicano, predicatore,di origini ferraresi, Savonarola e, preda di una crisi religiosa e di un fervore mistico, abbandonò i soggetti profani, mitologici e neoplatonici dipinti fino ad allora, evidenziando uno stile più inquieto e isolato nel panorama pittorico dell’epoca.
Spostatici, in linea d’aria, abbiamo trovato un altro dipinto di analoga tematica, proveniente dal Museo di Capodimonte a Napoli e risalente allo stesso periodo della tela del Botticelli, il “Trasporto di Cristo al sepolcro”, dello spagnolo Pedro Fernàndez, attivo fra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento.
La tavola, testimonianza degli stretti rapporti politici e culturali intercorsi tra Firenze e Napoli tra il XV e XVI, costituiva lo scomparto centrale della predella del grande polittico a due ordini, che, fino alla metà del Settecento, si trovava sull’altare principale della chiesa di Santa Maria Maggiore a Caponapoli. Smembrato all’inizio dell’Ottocento in seguito alle soppressioni napoleoniche, il dipito, dapprima, fu custodito presso la quadreria borbonica e poi nel Museo di Capodimonte.
La tela presenta evidenti influenze di pittori italiani, frutto del soggiorno nel Belpaese del pittore originario di Murcia, che verso la fine del Quattrocento visitò Milano, subendo il fascino dei paesaggi rocciosi di Leonardo e degli arditi scorci prospettici di Bramante e Bramantino, e successivamente, nel primo Cinquecento, si trasferì a Napoli, dove ebbe modo di confrontarsi con una cultura figurativa moderna, alla quale seppe accostare la riflessione sul valore salvifico del sacrificio di Cristo.
Proprio da tale esperienza, nasce il nostro quadro, per certi versi simile, seppur partendo da premesse figurative diverse, all’opera di Botticelli, specialmente nel ritmo agitato delle forme e nella carica patetica impressa alle figure.
La scena rappresentata è suddivisa in due gruppi di figure: a sinistra vediamo il corpo di Cristo esanime, che, su di un lenzuolo, viene trasportato verso l’antro di una caverna rocciosa.
Figura evidente, accanto al fianco sinistro del Signore, quella della Maddalena, che partecipa al dramma con gesti carichi di pathos, come la mano sinistra spalancata e i capelli guizzanti, ma irrigiditi. A destra della composizione, invece, è rappresentato lo svenimento della Vergine.
Lasciato poi l’ampio salone, sintesi di vari stili, (un tempo cortile interno del palazzo nobiliare, progettato dall’architetto Cosimo Fanzago), abbiamo percorso lo scalone monumentale, decorato con grandi lampade e stucchi dorati di gusto ottocentesco, realizzati dagli artisti Giuseppe Cammarano e Gennaro Maldarelli, giungendo al piano nobile, composto da varie sale (degli Amorini, degli Stucchi , degli Uccelli, la Pompeiana e della Fedeltà), all’interno delle quali sono ospitate le omonime gallerie museali che ospitano 120 tra pitture, disegni e sculture, disposte con criterio cronologico( dal Seicento napoletano all’Ottocento, con la Scuola di Posillipo e Resina e con le sculture e i disegni otto-novecenteschi di Vincenzo Gemito) e facenti parte delle gallerie d’Italia, di proprietà del gruppo bancario Sanpaolo.
Tra i numerosi dipinti della collezione, l’ultima opera di Caravaggio: il Martirio di Sant’Orsola, risalente al 1610 e commissionato al pittore lombardo durante il suo soggiorno napoletano,( prima di partire per Porto Ercole, dove avrebbe dovuto compiere le formalità per essere graziato dalla pena capitale comminatagli perché omicida e dove invece trovò la morte) , dal banchiere genovese Marcantonio Doria, la cui famiglia aveva come protettrice proprio Sant’Orsola.
Spedito a Genova nel maggio dello stesso anno presso la famiglia del banchiere, rimase di proprietà dei discendenti di quest’ultimo fino al 1832, quando il quadro fu riportato a Napoli da Maria Doria Cattaneo e ,dopo un passaggio ai baroni Romano-Avezzano di Eboli, fu acquistato dalla Banca Commerciale italiana e , infine, dal gruppo Intesa.
Il dipinto, come tipico del realismo di Caravaggio, non presenta l’iconografia tradizionale di Sant’Orsola, ritratta con i segni del martirio e in compagnia di alcune vergini, ma raffigura il momento in cui la Santa, rifiutatasi di cedere alle lusinghe di Attila, re degli Unni, viene da questi trafitta con una freccia, conferendo alla scena un tono drammatico(il dramma ha connotato infatti la fase finale della vita dell’artista), accentuato dal gioco di luci e ombre originato dal contrasto tra lo scuro della tenda in cui è ambientata la scena , distinguibile solo da un drappo del tendaggio discostato e il colore rosso vivo dell’abito seicentesco indossato dal tiranno e del drappo che avvolge Sant’Orsola.
Attila, sulla sinistra, ha appena scagliato la freccia , ma sembra essersi già pentito del suo gesto , infatti sembra allentare la presa sull’arco , contraendo il volto in una smorfia di dolore e incredulità per l’atto compiuto. Poco distante, Sant’Orsola, trafitta dalla freccia sul seno, per nulla addolorata, ma rassegnata, piega la testa e porta al petto le mani, bianchissime rispetto a quelle degli altri, preludio alla morte vicina, per constatare lo strumento del suo martirio.
Ugualmente increduli ,per il gesto impulsivo e repentino del loro capo, gli altri tre barbari, anch’essi in abiti seicenteschi e in armatura di ferro, sono dipinti nell’atto di accorrere per sorreggere la Santa e uno di essi, quello dipinto alle spalle della martire, con la bocca dischiusa e l’espressione dolorante ,come a ricevere la trafittura insieme a lei, ha le fattezze del pittore.
La visione di quest’ultimo capolavoro, ha quindi segnato la fine della nostra visita. Siamo dunque usciti da Palazzo Zevallos con qualche consapevolezza in più. Non importa, se la bellezza non riuscirà a salvare il mondo, come ha pronosticato, invece, lo scrittore russo Dostoevskij. Di certo, essa salva i nostri fine settimana e le nostre vacanze dalla noia e dall’abbrutimento di un sofà o di una sdraio, ed è già tanto.
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