Terza tappa del nostro tour estivo nel Centro storico di Napoli : la Basilica di San Domenico Maggiore, casa madre dell’ordine dei Domenicani e chiesa della nobiltà aragonese, che si erge nella piazza omonima, in posizione centrale rispetto al decumano inferiore.
di Federica Marengo lunedì 19 agosto 2019
Dopo essere usciti dalla Basilica di Santa Chiara ed aver percorso via Benedetto Croce , eccoci giunti in piazza San Domenico Maggiore, dove, nel V secolo a.C. passavano le mura greche, i cui resti emersero nel XVII secolo, durante i lavori per la costruzione dell’obelisco, che svetta al centro, e durante uno scavo avviato nel 1943, in piena Seconda Guerra Mondiale.
La piazza, il cui aspetto attuale si deve agli interventi operati dagli Aragonesi nel XV secolo e agli innesti successivi risalenti al XIX secolo, fa da sfondo alla Basilica omonima, eretta in posizione centrale rispetto al decumano inferiore nel quale ci troviamo.
Voluta da re Carlo II d’Angiò a seguito di un voto fatto alla Maddalena durante la prigionia patita nel periodo dei Vespri siciliani, la chiesa, consacrata nel 1255 per volere di Papa Alessandro IV, fu costruita sotto la supervisione degli architetti Pierre de Chaul e Pierre d’Angicourt, tra il 1283 e il 1324, divenendo, assieme con il convento adiacente, la casa madre dell’ordine domenicano nel Regno di Napoli e chiesa e luogo di culto della nobiltà aragonese. Infatti, varie furono le personalità che orbitarono intorno al complesso, tra le quali: Tommaso d’Aquino, che vi insegnò e la cui cella è tutt’ora visitabile e i filosofi : Giovanni Pontano, Giordano Bruno e Tommaso Campanella, che vi studiarono.
I domenicani, guidati da Fra Tommaso Agni da Lentini, giunsero a Napoli nel 1231 e non avendo una propria sede, si stabilirono nel monastero benedettino della chiesa di San Michele Arcangelo a Morfisa, prendendone possesso.
La facciata principale della Basilica, sulla cui parte alta dell’arco esterno di accesso allo spazio aperto è collocato in una lunetta l’affresco raffigurante “La Vergine che offre lo scapolare domenicano al beato Reginaldo”, della scuola di Pompeo Landulfo, pittore del XV secolo, e che sul lato interno dell’arco presenta un’iscrizione che testimonia la munificenza verso i frati di Carlo II d’Angiò (anch’esso raffigurato in una statuetta di marmo posta in una nicchia), è rinserrata all’interno di un cortile, in Vico San Domenico, sul lato opposto dell’ingresso attuale in piazza, aperto nell’abside, con il portale gotico-rinascimentale risalente alla metà del Quattrocento.
Nell’edificio, che presenta i canoni dello stile gotico, fu inglobata la più antica chiesa di Sant’ Angelo a Morfisa, che ne costituì una sorta di cappella laterale.
All’ingresso, prima del portale marmoreo ad arco acuto e del portale ligneo, scorgiamo un pronao settecentesco, tutti realizzati da Bartolomeo di Capua e sul lato destro della facciata, invece, vediamo il campanile del Settecento e accanto ad esso l’accesso al convento di San Domenico. Lungo vico San Domenico, infine, una scalinata conduce all’entrata della Basilica, in corrispondenza della navata sinistra e della settima cappella.
Varcato poi l’ingresso ci troviamo di fronte a un’aula con una pianta a croce latina, suddivisa in tre navate, cappelle laterali, ampio transetto e abside poligonale, costruita, come abbiamo detto, in senso opposto alla chiesa preesistente.
Alzato lo sguardo, ci imbattiamo nel soffitto a cassettoni e dorature di gusto barocco risalente al 1670, che sostituì quello originario a capriate lignee e che al centro presenta lo stemma domenicano e agli angoli, quelli vicereali.
In corrispondenza della quinta arcata di sinistra, poi, scorgiamo il pulpito della metà del XVI secolo.
Delle originali forme gotiche, molto è andato perduto a causa dei rifacimenti che si susseguirono già a partire dall’età rinascimentale, quando la Basilica fu danneggiata da terremoti e incedi. Rimaneggiamenti, questi ultimi, ai quali seguirono i restauri barocchi del XVII secolo, tra i quali spicca la sostituzione del pavimento con quello ideato da Domenico Antonio Vaccaro, completato nel XVIII secolo.
Con l’avvento di Gioacchino Murat , generale francese , cognato di Napoleone Bonaparte, divenuto re di Napoli nel 1808, i frati domenicani dovettero abbandonare l’edificio religioso, in quanto Basilica e convento furono destinati fra il 1808 e il 1815 ad opera pubblica, provocando danni alla biblioteca e al patrimonio artistico.
Tuttavia, un tentativo di recuperare il complesso fu attuato da Federico Travaglini, che, fra il 1850 e il 1853, realizzò restauri e decorazioni con stucchi dorati e colorati in stile neo-gotico.
Il complesso, però, subì nuovi danni durante il periodo della soppressione degli ordini religiosi (1865-1885), quando i domenicani dovettero lasciare nuovamente il convento, affinché potessero essere realizzati riadattamenti alle strutture (in particolare alle palestre, agli istituti scolastici, al ricovero per i mendicanti e alla sede del Tribunale).
Nel 1921, invece, Papa Benedetto XV elevò la chiesa al rango di “basilica minore”, mentre nel 1953 furono avviati restauri per eliminare le tracce dei bombardamenti del 1943, grazie ai quali furono ripristinati il soffitto a cassettoni, i tetti, le balaustre delle cappelle, la pavimentazione e l’organo settecentesco e furono portati alla luce gli affreschi di Pietro Cavallini, che abbelliscono la seconda cappella sul lato destro , la Cappella Brancaccio, con un ciclo di Storie di Santi di ispirazione giottesca, risalenti al 1308-1309.
Ventisette, sono infatti le cappelle che lambiscono le tre navate, quattordici quelle che scandiscono le navate laterali, sette per lato.
Dalla VII cappella sullo stesso lato, si accede poi al Cappellone di San Tommaso d’Aquino, sul cui altare si eleva un Crocifisso del XIII secolo e, a sua volta alla Sala del Tesoro di San Domenico.
Altre otto cappelle, invece, sono collocate nel transetto, quattro per lato. Transetto, che è costituito da altari e sepolcri laterali risalenti al periodo dal Trecento al Cinquecento e che , tramite la seconda cappella sul lato destro, conduce agli antichi ambienti dell’ex chiesa di San Michele Arcangelo a Moefisa, nella quale è presente l’ingresso-uscita su piazza San Domenico Maggiore.
Affreschi di Francesco Solimena, rappresentanti il Trionfo dell’ordine dei Domenicani, risalenti l709, sono presenti poi sulla volta della Sacrestia, nella quale sono collocate 45 casse contenenti le spoglie di personaggi legati alla corte aragonese.
Portandoci, invece, nella zona della controfacciata, sul lato destro, scorgiamo la cappella di San Martino, costruita nel 1508 e dedicata al Santo vescovo di Tours. Appartenuta ai principi Carafa di Santa Severina , essa presenta numerose decorazioni marmoree , alcune delle quali riproducono lo stemma della famiglia Carafa, altre rappresentano trofei militari ed elementi vegetali ed altre ancora raffigurano le virtù dei membri della nobile famiglia, in particolare di Andrea, luogotenente di Carlo V, nonché committente dell’arco rinascimentale, che dà accesso alla cappella, quest’ultimo scolpito dai toscani Romolo Balsimelli da Settignano e Andrea Ferrucci.
Osservando poi, la parete di fondo, vediamo altre opere , come il dipinto “Vergine col Bambino su un trono e i Santi Domenico, Caterina e Martino, risalente alla fine del XVI secolo e attribuito al pittore fiammingo Cornelis Semet.
Infine, nella cappella troviamo : la tomba di Galeotto Carafa, datata 1513 e realizzata da Romolo Balsimelli e la tomba di Filippo Saluzzo, risalente al 1846 e progettata da Giuseppe Vaccà, cui si aggiungono quattro grandi tele del De Vivo datate all’inizio dell’Ottocento: Creazione della luce, Adorazione dei magi, Visita della regina di Saba a Salomone e Ingresso della famiglia di Noè nell’arca.
Sul lato sinistro, invece, troviamo la cappella Muscettola, risalente anch’essa agli inizi del XVI secolo, quando furono chiusi i due ingressi laterali alla basilica. La cappella, fino ad allora intitolata a San Giuseppe, divenne di proprietà della famiglia Muscettola nel corso del Seicento, quando la cappella di cui era proprietario il nobile consesso scomparve a causa dei lavori di ristrutturazione seicenteschi della chiesa. Varie furono le opere d’arte di valore fatte collocare all’interno dai titolati.
In un ambiente abbellito da decorazioni in marmo bianco databili fra la prima metà del XVI secolo e la prima metà del secolo successivo, vediamo sull’altare due dipinti di scuola napoletana quali : il San Giuseppe incoronato dal Bambino Gesù retto dalla Vergine di Luca Giordano e , più in alto, l’Eterno Padre di Belisario Corinzio.
Un’altra tela presente nella cappella, è quella de Il Redentore, risalente al 1524 e dipinta da Girolamo Alibrandi. Altri due dipinti, invece, non più presenti nella cappella, erano di dubbia attribuzione (Raffaello o Fra’ Bartolomeo della Porta). Sottratto forse, durante il periodo francese (1805-1815), il primo dipinto, fu sostituito da una copia ottocentesca, mentre il secondo, un’Adorazione dei Magi, di anonimo pittore fiammingo, risalente al Cinquecento, oggi è esposto al Museo Nazionale di Capodimonte.
Percorrendo adesso la navata destra, ci troviamo davanti 7 cappelle, la prima delle quali è la cappella dedicata a Santa Maria Maddalena. La cappella, appartenente ai Brancaccio Glivoli, presenta : tracce di un affresco realizzato nella stessa epoca di costruzione della Basilica, rappresentante la Madonna col Bambino, attribuito alla scuola pittorica della fine del XIV secolo, la tombe trecentesche di Tommaso Brancaccio e Trani da Barolomeo Brancaccio e la tela raffigurante la Madonna col Bambino e santi domenicani di Francesco Solimena, databile al 1730. Tra le altre opere scultoree e pittoriche presenti nella cappella: un San Domenico di Giovanni Filippo Criscuolo, sculture marmoree raffiguranti elementi decorativi e lo stemma della famiglia, nonché un Crocifisso ligneo settecentesco collocato sull’altare.
La seconda cappella, invece, sempre di proprietà dei Brancaccio,chiamata : “cappella degli affreschi”,per via delle scene a fresco che ne decorano le pareti, è tra i più riusciti esempi della pittura giottesca in città. Realizzati dal pittore romano Pietro Cavallini, che operò a Napoli in qualità di ospite remunerato di re Carlo II, gli affreschi, commissionati dal cardinale Landolfo Brancaccio nel 1308, raffigurano : Storie di San Giovanni Evanagelista , una Crocifissione con la Vergine e San Giovanni dolenti e al loro fianco i santi maggiori dell’ordine domenicano, San Domenico e Pietro martire, Storie di Andrea e Storie della Maddalena.
La terza cappella , del Crocifisso, di proprietà dei Capece a partire dal 1549, nacque come cappella di San Giorgio ed è dominata dal dipinto raffigurante il Crocifisso, di autore anonimo, identificato con un membro della famiglia Capece. Tra le altre opere presenti all’interno troviamo: i monumenti funebri di Bernardo e Corrado Capece , realizzati all’inizio del Seicento da Ludovico Righi, con la collaborazione di Girolamo D’Auria e le decorazioni raffiguranti gli stemmi di famiglia, i trofei militari e le armi.
La quarta cappella, intitolata dapprima a S. Antonio Abate e poi a San Carlo Borromeo, oltre a presentare il dipinto rappresentante il Santo (erroneamente attribuito a Giotto), reca alle pareti laterali una tela con Battesimo di Cristo , del senese Marco Pino, risalente al 1564, con influssi michelangioleschi, una Ascensione del fiammingo Teodoro d’Errico, una Madonna del Rosario che appare a San Carlo Borromeo e a San Domenico di Filippo Vitale e Pacecco De Rosa e due tele rappresentanti le Nozze di Cana e Cena in casa di Simone di Mattia Preti.
La quinta cappella di Santa Caterina da Siena, appartenente sin dal Trecento ai Dentice delle Stelle, contiene i monumenti funebri dedicati alle mogli di Ludovico e Carlo Dentice, Dialta Firrao e Feliciana Gallucci, databili al XIV secolo. Presenti anche elementi decorativi raffiguranti gli stemmi delle famiglie Dentice e Firrao, lastre tombali trecentesche , un tombino sepolcrale di Carlo Dentice e Giovanna della Tolfa del 1564 ed una Adorazione dei pastori di Matthias Stomer.
La sesta cappella, detta: “Cappellone del Crocifisso”, è una delle più grandi della Basilica, tanto da formare un ambiente a parte rispetto al complesso religioso, contenente il vestibolo e altre due cappelle. La grande cappella ha custodito alcune opere che, nel corso dei secoli, sono state trasferite in diversi importanti musei d’Europa , come : la Madonna del Pesce di Raffaello, poi spostata presso il Museo del Prado di Madrid , la tavola duecentesca della Crocifissione posta sull’altare, oggi sostituita da una riproduzione fotografica, proveniente dall’antecedente spazio dedicato alla chiesa di San Michele Arcangelo a Morfisa e poi collocata nella cella di San Tommaso d’Aquino al primo piano del convento e la tavola posta al lato sinistro della parete frontale, dove si trovava una Deposizione del Colantonio, poi spostata al Museo nazionale di Capodimonte.
Sulla volta del “Cappellone”, invece, scorgiamo gli affreschi di Michele Ragolia, mentre sulla parete di destra sono collocati alcuni monumenti funebri ai Carafa o a personalità ad essi collegate e la tela della Resurrezione del fiammingo Wenzel Cobergher.
Sul lato sinistro, poi, oltre al sepolcro di Francesca Carafa, realizzato da Malvito, troviamo due cappelle decorate con affreschi e monumenti funebri rinascimentali, dov’è collocato il presepe con statue del primo decennio del Cinquecento, eseguite da Pietro Belverte.
La settima e ultima cappella, dedicata a San Tommaso d’Aquino, appartenne ai d’Aquino dal Trecento. L’altare , risalente al Seicento e attribuibile a Jacopo Lazzari e ad Antonio Galluccio, recava una tela raffigurante una Madonna col bambino e San Tommaso d’Aquino di Luca Giordano, poi trafugata nel 1975. Presenti, inoltre, due sepolcri del XIV e XVI secolo ed i monumenti funebri a Giovanna , Cristoforo e Tommaso d’Aquino.
All’angolo della parete frontale, infine, una porta che conduce alla Sacrestia. Quest’ultima, preceduta da un passaggetto che mostra alcune sculture e targhe commemorative, è una sala di forma rettangolare, decorata con forme barocche del XVIII secolo su disegno di Giovan Battista Nauclerio. Tra le decorazioni presenti: l’affresco Trionfo della fede sull’eresia ad opera dei Domenicani, dipinto sulla volta da Francesco Solimena , la pala d’altare dell’Annunciazione di Fabrizio Santafede, il pavimento marmoreo e arredi mobiliari settecenteschi.
Sul ballatoio intorno alla volta vediamo invece 45 feretri con spoglie imbalsamate di nobili , appartenenti per lo più alla dinastia aragonese, tra i quali: i re Ferrante I e II d’Aragona, Isabella d’Aragona, duchessa di Milano e Fernando Francesco d’Avalos, capitano delle truppe di Carlo V e vincitore nel 1525 della battaglia di Pavia contro il re Francesco I di Francia.
Da una porta posta a destra dell’altare maggiore si accede invece alla Sala del Tesoro, nella quale sono conservate le ricchezze della nobiltà partenopea e dei frati domenicani che hanno alloggiato nel convento. Visibili inoltre gli abiti dei sovrani , gli oggetti sacri utilizzati durante le processioni e argenterie varie.
Ora, visitata la Sacrestia, ci dirigiamo verso la navata sinistra, articolata anch’essa in numerose cappelle. La prima cappella è quella di Zi’ Andrea , di proprietà ,dapprima dei marchesi di Taviano di casa Spinelli, e poi dei de’ Franchis, che, dopo l’acquisto avvenuto agli inizi del Seicento, decisero di intervenire sull’ambiente dandogli un aspetto barocco.
A realizzare il rifacimento furono chiamati due scultori : Anrdrea Malasomma e Costantino Marasi, che eseguirono i lavori fra il 1637 e il 1652. Alla volta, invece, lavorò il Corenzio, che eseguì affreschi oggi perduti , mentre nell’altare maggiore fu collocata la tela di Caravaggio: “Flagellazione di Cristo”, commissionata al de’ Franchis (proprietario della cappella) nel 1607.
A partire dal 1675, però, la tela subì molteplici spostamenti in varie cappelle della Basilica fino ad essere trasportata al Museo di Capododimonte.
Allora, in sostituzione del dipinto di Caravaggio, sull’altare , fu collocata un’opera lignea realizzata da Pietro Ceraso, dal titolo: “Madonna di Zi’ Andrea”, che, in seguito ha dato il nome alla cappella. L’opera vedeva tra le braccia della Vergine, un Bambino, quest’ultimo trafugato nel 1977. Alle due pareti laterali , infine, scorgiamo i monumenti sepolcrali di Iacopo e Vincenzo de’ Franchis, eseguiti sempre dal Malasomma.
La seconda cappella, intitolata a San Giovanni Evangelista, apparteneva anch’essa alla famiglia Carafa (ramo Stadera). All’interno possiamo osservare : elementi decorativi datati fra il XVI e il XIX secolo , riguardanti i busti a basso rilievo raffiguranti San Giovanni Evangelista, San Domenico e San Tommaso, tele cinquecentesche di Agostino Tesauro e Scipione Pulzone e due monumenti funebri quattrocenteschi dedicati a Rinaldo Carafa e al figlio Antonio, realizzati da Jacopo della Pia.
La terza cappella,intitolata a San Giovanni Battista, presenta diverse opere pittoriche e sculture cinquecentesche della scuola napoletana. Sulla parete frontale, vediamo, infatti, il San Giovanni Battista di Girolamo D’Auria, e sulla parete di sinistra il monumento funebre a Bernardino Rota, eseguito con l’aiuto del fratello Giovan Domenico. Sulla trabeazione dell’altare frontale , invece, troviamo la scultura della Madonna col Bambino in cui sono evidenti gli influssi della scuola di Tino di Camaino.
Alla fine del XV secolo, risalgono poi, i monumenti funebri dedicati ai coniugi Antonio Rota e Lucrezia Brancia, posti ai lati dello stesso altare.
Il monumento funebre ad Alfonso Rota , risalente alla fine del Cinquecento ed eseguito da Giovanni Antonio Tenerello, è invece collocato sulla parete destra.
La quarta cappella, dedicata a San Nicola, voluta da Nicola Fraezza, fu acquisita intorno al XVII secolo dai Marchese d’Andrea e ospita una tela di fine Seicento raffigurante San Nicola di Bari, diverse incisioni ed un monumento funebre ottocentesco realizzato da Gaetano Travone e dedicato a Giovan Francesco d’Andrea.
La quinta cappella, dedicata a San Bartolomeo e appartenuta sin dal Trecento alla famiglia Carafa della Spina, presenta sopra l’altare maggiore settecentesco, una tela di Jusepe de Ribera rappresentante il Martirio di San Bartolomeo, ai cui lati troviamo i monumenti scultorei di Alfonso e Maurizio Carafa, sormontati entrambi dallo stemma della famiglia. Sulla parete di destra scorgiamo invece il Monumento scultoreo ad Ettore Carafa , progettato da Domenico Antonio Vaccaro ed eseguito nel 1738 da Francesco Pagano.
Sulla parete di sinistra , poi, vediamo il Monumento funebre a Letizia Caracciolo, risalente alla metà del Trecento. Molteplici, inoltre, le decorazioni che abbelliscono la cappella, quali: gli stemmi familiari, le lapidi commemorative settecentesche, una tela anonima di fine Cinquecento , rappresentante il Martirio di San Lorenzo e due dipinti attribuiti al fiammingo Wenzel Cobergher.
La sesta cappella, intitolata a Santa Caterina d’Alessandria, appartenuta alla famiglia Tomacelli, ospita diversi monumenti funebri databili fra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, in particolare il Monumento a Leonardo Tomacelli di Tommaso Malvito. Presenti, poi, altri elementi decorativi come: gli stemmi della nobile famiglia, alcune armi, il dipinto cinquecentesco “Martirio di Santa Caterina” di Giovann’Angelo d’Amato, una lapide decorata con teschi e il sepolcro ottocentesco di Ferdinando Ruffo, nemico dei protagonisti della Repubblica del 1799, con scolpito lo stemma dei Ruffo di Bagnara.
La settima e ultima cappella, è dedicata alla Madonna della Neve. Sulla parete frontale troviamo l’altare marmoreo di Santa Maria della Neve (1536), realizzato da Giovanni da Nola. A destra, invece, il busto bronzeo del poeta Giovan Battista Marino, qui spostato nel 1813 e sulla parete sinistra i monumenti sepolcrali di Bartolomeo e Girolamo Pepi, entrambi del 1553.
Spostandoci poi nella zona del transetto destro, vediamo l’apertura di quattro cappelle, due sulla parete frontale e due in quella presbiteriale, al lato dell’abside.
Nella parete frontale, la prima cappella è quella dedicata a San Giacinto , la quale ospita sull’altare una tavola tardo-cinquecentesca rappresentante la Madonna che appare a San Giacinto, realizzata da Giovanni Vincenzo da Forlì, con attorno tavolette ritraenti Storie della vita di San Giacinto. Nella parete immediatamente fuori la cappella , invece, è collocato l’altare Dottonoroso, con un bassorilievo del Cinquecento raffigurante San Girolamo nel deserto.
La seconda cappella frontale, invece, fornisce l’accesso alla ex chiesa romanica di San Michele Arcangelo a Morfisa , inglobata nella basilica proprio in corrispondenza del transetto destro, il cui accesso fu consentito dalla scalinata voluta da Ferrante d’Aragona che parte da piazza San Domenico Maggiore, costituendo nel tempo l’entrata principale alla basilica. Qui, sono presenti alcuni monumenti funebri , tra i quali: il gruppo sepolcrale cinquecentesco della famiglia Rota, con al centro il Monumento sepolcrale a Porzia Capece del 1559 di Giovanni Domenico e Girolamo D’Auria, presente sulla parete di sinistra e , nella facciata, il trecentesco monumento sepolcrale a del Giudice. Sul lato destro, poi, scorgiamo due cappelle, la prima di San Bonito, la seconda intitolata a San Domenico.
La cappella di San Bonito appartenne originariamente al segretario di Ferrante I (il re Ferdinando d’Aragona), Antonio Petrucci, il cui palazzo di famiglia si trovava vicino alla cappella e alla basilica. Dopo la congiura dei Baroni (un moto rivoluzionario che si sviluppò nel XV secolo a partire dalla Basilicata, come reazione all’insediamento sul trono del Regno di Napoli degli Aragonesi), la cappella passò ai Bonito che ingaggiarono per l’occasione il carrarese Giuliano Finelli per realizzare la scultura di San Bonito, poi collocata sull’altare maggiore. Alla parete sinistra invece il sepolcro di Alessandro Vicentini progettato da Matteo Bottiglieri.
La cappella di San Domenico, invece, ha ospitato per lungo tempo una tavola duecentesca raffigurante una delle prime immagini di San Domenico (oggi, nel cappellone del Crocifisso). Presenti poi, il monumento funebre a Tommaso Brancaccio di Jacopo della Pila, risalente alla fine del Cinquecento, frammenti di altri sepolcri del Quattro-Cinquecento collocati alle pareti e sul pavimento maiolicato ottocentesco e , sulla facciata principale , la Macchina delle Quarantore.
In area presbiteriale vediamo poi altre due cappelle : la cappella di San Domenico Soriano e la cappella dell’Angelo custode. La cappella di San Domenico Soriano, collocata a destra dell’abside , apparteneva sin dal Quattrocento, ai Carafa della Stadera ed è stata chiamata così per via di un dipinto presente sull’altare settecentesco, raffigurante San Domenico Soriano. Inoltre, nello stesso ambiente sono presenti altre tele , tra cui due dipinti di Luca Giordano,collocati sulle pareti laterali, rappresentanti San Tommaso d’Aquino e San Vincenzo Ferrer e affreschi del Settecento realizzata da Francesco Cosenza.
La cappella dell’Angelo Custode, invece, già intitolata a San Tommaso, prende il nome dall’opera lignea di fine XVI secolo presente sull’altare maggiore e raffigurate un angelo custode. Presenti nella cappella, che ospita i resti di San Tarcisio, anche degli affreschi di Michele Regolia, un pavimento maiolicato del Settecento ed alcuni bassorilievi marmorei.
All’esterno della cappella, nell’angolo destro del transetto, vediamo poi il sepolcro di Galeazzo Pandone , databile al 1514, sulla cui sommità è collocata una Vergine col Bambino di Giovanni da Nola , mentre più in alto vi è il fronte del Sarcofago di Giovanni d’Angiò, opera di Tino di Camaino.
Portandoci poi, verso il transetto sinistro, scorgiamo altre quattro cappelle, due lungo la parete presbiteriale e due su quella frontale.
La cappella Pinelli, la prima sulla parete frontale del transetto, fu acquistata nel 1575 dal banchiere genovese, Cosimo Pinelli, che risiedeva già da un ventennio a Napoli. Essa presenta alcuni elementi di pregio come: il pavimento in marmo con al centro lo stemma della famiglia ed i sepolcri laterali di Cosimo Pinelli e Giustiniana Pignatelli , moglie di Galeazzo Francesco Pinelli.
La cappella ospitava al suo interno anche una tela di Tiziano: “Annunciazione”, (ora visitabile presso il Museo di Capodimonte) ,commissionata dal Pinelli e collocata nell’ambiente nel 1557.
Fuori dalla cappella, addossata alla parete di destra, troviamo l’altare intitolato a San Girolamo, attribuito alla cerchia di Tommaso Malvito, che costituisce il nucleo restante della Cappella Riccio, esistente sino alle trasformazioni ottocentesche.
L’altare , consta di una mensa con bassorilievo del Cristo, il quale è rappresentato nell’atto di risorgere per metà figura con le braccia aperte , una fascia marmorea con iscrizione funebre del patrizio di Nido Michele Riccio, incorniciata tra due stemmi nobiliari, il bassorilievo di San Girolamo nel deserto e una lunetta recante una Annunciazione alla Vergine.
Sulla parete esterna di sinistra , prima della Cappella Blanch, vediamo il monumentale Sepolcro a Rinaldo Del Doce, realizzato da Tommaso Malvito e Giovanni da Nola, prima collocato nel Cappellone del Crocifisso, recante in cima un’ancona marmorea risalente al XV-XVI secolo, al cui lato è la lastra sepolcrale trecentesca di Filippo d’Angiò, eseguita da Tino di Camaino.
La seconda cappella, presente invece sulla parete frontale, è quella Blanch o di San Vincenzo, la cui proprietà passò dai Carafa agli Spinelli. Essa conserva sulla parete sinistra il Sepolcro di Tommaso Blanch realizzato da Andra Falcone, mentre sulla parete frontale scorgiamo un dipinto ottocentesco su San Vincenzo.
La cappella del Rosario, è la prima a sinistra dell’abside. Intitolata alla Vergine del Rosario nel 1692, dopo diversi passaggi di proprietà, venne acquistata nel Settecento da Vincenzo Carafa, che iniziò i lavori di restauro nel 1779, commissionando l’esecuzione a Carlo Vanvitelli.
Di Fedele Fischetti, invece, una tela del 1788, collocata sull’altare maggiore, raffigurante la Madonna del Rosario, mentre ,sempre dello stesso autore, sono gli affreschi che abbelliscono la cappella. Sulla parete destra, invece, vediamo una copia della Flagellazione di Cristo di Caravaggio , eseguita da Andrea Vaccaro. Sotto la cappella, si apre inoltre una cripta che conserva le sepolture di diversi esponenti del casato Carafa e dei loro familiari, tra i quali vi è Ippolita Gonzaga , morta a Napoli nel 1563, moglie del duca di Mondragone, Antonio Carafa e figlia di Ferrante I Gonzaga, signore di Guastalla e Viceré di Sicilia.
Infine, la seconda cappella lungo il presbiterio è intitolata a Santo Stefano o anche all’Immacolata. Essa presenta al centro un affresco trecentesco di Roberto d’Oderisio, rappresentante l’Immacolata, una statua cinquecentesca su Santo Stefano , un monumento sepolcrale a Filippo Spinelli del XVI secolo eseguito da Bernardino Moro e un monumento funebre dedicato a Carlo Spinelli, realizzato da Giovanni Marco Vitale.
Spostandoci, poi, nella zona dell’abside, ideata da Nicola Tagliacozzi Canale, troviamo alle spalle dell’altare maggiore la cassa barocca dell’organo, databile al 1715, che ha occupato lo spazio prima riservato alle sepolture dei sovrani aragonesi, andate distrutte durante l’incendio del 1506, e ha sostituito due organi preesistenti.
Sulle pareti laterali, al posto di due dipinti di Michele Regolia del 1680, andati persi durante i lavori di restauro del XVIII secolo, troviamo due grandi affreschi ottocenteschi di Michele De Napoli, rappresentanti San Tommaso tra i dottori e San Domenico che disputa con gli eretici. Presente nella tribuna, un coro ligneo risalente alla fine del 1752, opera del padre domenicano Giuseppe Parete.
L’altare maggiore e la balaustra marmorea sono invece opere di Cosimo Fanzago, risalenti al 1652, sebbene vi siano stati lavori di adeguamento successivi al 1688, che interessarono gli scultori Ferdinando de Ferdinandi , Giovan Battista Nuclerio e Lorenzo Vaccaro, (quest’ultimo realizzò nel 1695 i due putti ai lati dell’altare). Il Crocifisso, databile all’Ottocento, adorna l’altare insieme con altri elementi decoratovi risalenti al XVI secolo.
Alle spalle dell’altare maggiore, sulla cantoria , a ridosso della parete frontale dell’abside, vediamo l’organo a canne della basilica, costruito riutilizzando la cassa barocca dell’organo costruita nel 1715 dall’organaro Fabrizio Cimino, che presenta sulla superficie lignea sculture e rilievi.
Ai lati della balaustra marmorea del Fanzago , sono collocati due leoni trecenteschi. Accanto al leone di sinistra vediamo un gruppo di tre virtù che , fungendo da cariatidi, innalzano il candelabro del tardo Cinquecento, elementi, provenienti dal monumento funebre di Filippo d’Angiò realizzato da Tino di Camaino e successivamente smembrato. Dalla balaustra, poi, due scale elicoidali, poste ai lati, conducono alla cappella Guevara di Bovino sottostante l’abside , risalente alla fine del XVI secolo e su cui è orientato l’accesso centrale della basilica, che si trova in Piazza San Domenico Maggiore.
Terminata la terza tappa del nostro tour attraverso il Centro storico di Napoli, usciamo dalla chiesa di San Domenico Maggiore per proseguire il nostro cammino lungo il Decumano inferiore. Qui, lasciataci alle spalle piazza San Domenico Maggiore, all’incrocio tra Largo corpo di Napoli e piazzetta Nilo, veniamo attratti dalla facciata di un altro edificio religioso, che lambisce l’adiacente via Mezzocannone, nel quartiere Porto, (anello di congiunzione con il Corso Umberto I, dove si erge la sede storica dell’Università partenopea, intitolata al suo fondatore Federico II di Svevia) . Fermandoci all’ingresso e guardando la segnaletica, scopriamo che si tratta della chiesa di Sant’Angelo. Quindi, decidiamo di entrarvi. Chissà quali altri tesori ignoti ci attendono.
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