di Federica Marengo sabato 18 maggio 2024
-Una giornata dedicata al tema della pace, quella di oggi, che ha visto Papa Francesco recarsi a Verona in visita pastorale per partecipare all’incontro-evento : “Arena di pace. Giustizia e Pace si baceranno”, svoltosi presso l’Anfiteatro romano.
Le Arene di Pace hanno avuto inizio nella città scaligera nel 1986, come momenti di riunione della società civile, promossi dal movimento “Beati i costruttori di pace”, cui si sono aggiunte nel tempo altre realtà che hanno elaborato insieme riflessioni sul tema della nonviolenza.
Il Pontefice, partito in elicottero alle 6:30 dall’eliporto vaticano , è arrivato a Verona alle 7:55 e , dopo un atterraggio nel piazzale adiacente allo stadio Bentegodi, è stato accolto dal vescovo della città, S.E. Mons.Domenico Pompili, dal Presidente della Regione Veneto, Zaia, dal Presidente della Camera, Fontana, dal Prefetto Demetrio Martino e dal sindaco, Damiano Tommasi.
Poi, il Santo Padre ha raggiunto a bordo di un auto la Basilica di San Zeno, dove ha affidato al Patrono della città la Sua preghiera per la pace e dove ha incontrato i sacerdoti , i consacrati e le consacrate, tra cui un gruppo di monache di clausura.
Qui, rivolgendosi a un uditorio di circa 800 persone , ha tenuto un discorso nel quale, paragonando la Chiesa alla barca del Signore “che naviga nel mare della storia, per portare a tutti la gioia del Vangelo”, si è soffermato su due elementi importanti di riflessione che riguardano la vita religiosa: la “chiamata ricevuta e sempre da accogliere” e la “missione, da compiere con audacia”.
Quindi, Papa Francesco, in merito al primo punto, ha spiegato: “All’inizio del suo ministero in Galilea, Gesù passa lungo la riva del lago e posa il suo sguardo su una barca e su due coppie di fratelli pescatori, i primi che gettano le reti e gli altri che le rassettano. Si avvicina e li chiama a seguirlo. Non dimentichiamo questo: all’origine della vita cristiana c’è l’esperienza dell’incontro con il Signore, che non dipende dai nostri meriti o dal nostro impegno, ma dall’amore con cui ci viene a cercare, bussando alla porta del nostro cuore e invitandoci a una relazione con Lui. Mi domando e vi domando: io ho incontrato il Signore? Mi lascio incontrare dal Signore? Ancora di più, all’origine della vita consacrata e della vita sacerdotale, non ci siamo noi, i nostri doni o qualche merito speciale, ma c’è la chiamata sorprendente del Signore, il suo sguardo misericordioso che si è chinato su di noi e ci ha scelti per questo ministero, benché non siamo migliori degli altri, siamo peccatori come gli altri. Questo, sorelle e fratelli, è pura grazia, pura grazia. Mi piace quello che Sant’Agostino diceva: guarda da una parte e dall’altra, cerca il merito, e non troverai niente, soltanto grazia. È pura grazia, pura gratuità, un dono inatteso che apre il nostro cuore allo stupore davanti alla condiscendenza di Dio. La grazia provoca questo: lo stupore. “Ma io non immaginavo mai una cosa del genere!…”. Lo stupore quando siamo aperti alla grazia e lasciamo che il Signore lavori in noi. Cari fratelli sacerdoti, care sorelle e fratelli religiosi: cerchiamo di non perdere mai lo stupore della chiamata! Ricordare il giorno nel quale il Signore mi ha chiamato. Forse ognuno di noi ricorda bene come è stata la chiamata, o almeno il tempo della chiamata: ricordarlo, questo ci porta gioia; anche piangere di gioia per il momento della chiamata. “Tu, vieni!” – “Chi? Quell’altro?” – “No, tu!” – “Sì, no… quell’altro?” – “No, tu, tu!” – “Ma, Signore, quell’altro è più buono di me…” – “Tu! Disgraziato, peccatore, come tu sei, ma tu!”. Non dimentichiamo il tempo della chiamata. Questo stupore, che cosa bella! E questo si alimenta con la memoria del dono ricevuto per grazia: sempre dobbiamo avere questa memoria in noi. Questo è il primo fondamento della nostra consacrazione e del nostro ministero: accogliere la chiamata ricevuta, accogliere il dono con cui Dio ci ha sorpresi. Se smarriamo questa coscienza e questa memoria, rischiamo di mettere al centro noi stessi invece che il Signore; senza questa memoria rischiamo di agitarci attorno a progetti e attività che servono più alle nostre cause che a quella del Regno; rischiamo di vivere anche l’apostolato nella logica della promozione di noi stessi e della ricerca del consenso, cercando di fare carriera, e questo è bruttissimo, invece che spendere la vita per il Vangelo e per un servizio gratuito alla Chiesa. È Lui che ha scelto noi ,è Lui, Lui è al centro. Se ricordiamo questo, che Lui mi ha scelto, anche quando avvertiamo il peso della stanchezza e di qualche delusione, rimaniamo sereni e fiduciosi, certi che Lui non ci lascerà a mani vuote. Mai. Ci farà aspettare, questo è vero, ma non ci lascerà a mani vuote. Come i pescatori, allenati alla pazienza, anche noi, in mezzo alle sfide complesse del nostro tempo, siamo chiamati a coltivare l’atteggiamento interiore dell’attesa. La pazienza: attesa e pazienza, così come la capacità di affrontare gli imprevisti, affrontare i cambiamenti, affrontare i rischi connessi alla nostra missione; con apertura ma con il cuore sveglio, e chiedere allo Spirito Santo quella capacità di discernere i segni dei tempi: questo no, questo sì, questo non va. E tutto questo possiamo farlo perché all’origine del nostro ministero c’è la chiamata del Signore, e Lui non ci lascerà soli. Possiamo gettare la rete e attendere con fiducia. Questo ci salva, anche nei momenti più difficili; perciò ricordiamoci della chiamata, accogliamola ogni giorno, e restiamo con il Signore. Tutti noi sappiamo che ci sono momenti difficili, ci sono. Momenti di buio, momenti di desolazione… In questi momenti bui, ricordare la chiamata, la prima chiamata e da lì prendere forza”
Poi, riguardo al secondo punto di riflessione, la missione e l’audacia nel compiere la missione, il Pontefice, ha detto: “Quando questa esperienza di ricordare la prima chiamata è ben radicata in noi, allora possiamo essere audaci nella missione da compiere. E penso ancora al mare di Galilea, stavolta dopo la risurrezione di Gesù. Egli, sulla riva di quello stesso lago, incontra nuovamente i discepoli e li trova delusi, amareggiati da un senso di sconfitta, perché erano usciti a pescare “ma quella notte non avevano preso nulla”- e quante volte a noi succede questo, nella vita religiosa, nella vita apostolica –, allora il Signore li scuote da quella rassegnazione, li sprona a ritentare, a gettare ancora la rete; ed essi «la gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci» (v. 6). Nei momenti della delusione, non fermarci, resistere. Resistere. Tante volte dimentichiamo questo: a nessuno di noi, quando abbiamo incominciato questa strada, il Signore ha detto che tutto sarebbe stato bello, confortante. No. La vita è di momenti di gioia, ma anche di momenti bui. Resistere. La capacità, il coraggio di andare avanti e il coraggio di resistere. L’audacia – l’audacia apostolica – è un dono che questa Chiesa conosce bene. Se c’è infatti una caratteristica dei preti e dei religiosi veronesi, è proprio quella di essere intraprendenti, creativi, capaci di incarnare la profezia del Vangelo. Grazie, grazie di questo. E questa intraprendenza evangelica, si tratta di un sigillo – diciamolo così – che ha segnato la vostra storia: basti pensare all’impronta lasciata da tanti sacerdoti, religiosi e laici nell’Ottocento, che oggi possiamo venerare come Santi e Beati. Testimoni della fede che hanno saputo unire l’annuncio della Parola con il servizio generoso e compassionevole dei bisognosi, con una “creatività sociale” che ha portato alla nascita di scuole di formazione, di ospedali, case di cura, case di accoglienza e luoghi di spiritualità. Questa audacia di essere creativi per il popolo di Dio”.
Infine, rivolgendosi ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose presenti, Papa Francesco, li ha esortati a “perdonare tutto”, spiegando: “E quando la gente viene a confessarsi, non andare lì a inquisire “ma, come?…”, niente. E se voi non siete capaci in quel momento di capire, andate avanti, il Signore ha capito. Ma per favore, non torturare i penitenti. Mi diceva un grande Cardinale, che è stato penitenziere, era abbastanza conservatore, ma davanti alla penitenza, io l’ho sentito dire: “Quando una persona viene da me e io sento che ha difficoltà a dire le cose, io dico: ‘Ho capito, vai avanti’. Io non ho capito, ma Dio ha capito”. Questo, nel Sacramento della Riconciliazione. Per favore che non sia una seduta di tortura. Per favore, perdonate tutto. Tutto. E perdonare senza far soffrire, perdonare aprendo il cuore alla speranza. A voi sacerdoti chiedo questo. La Chiesa ha bisogno di perdono e voi siete gli strumenti per perdonare. A tutti. A tutti dobbiamo portare la carezza della misericordia di Dio, specialmente a chi ha sete di speranza, a chi si trova costretto a vivere ai margini, ferito dalla vita, o da qualche errore commesso, o dalle ingiustizie della società, che vanno sempre a scapito dei più fragili. Capito? Perdonare tutti. L’audacia di una fede operosa nella carità, voi l’avete ereditata dalla vostra storia. E allora vorrei dirvi con San Paolo: «Non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene”. Non cedete allo scoraggiamento: siate audaci nella missione, sappiate ancora oggi essere una Chiesa che si fa prossima, che si avvicina ai crocicchi delle strade, che cura le ferite, che testimonia la misericordia di Dio. È in questo modo che la barca del Signore, in mezzo alle tempeste del mondo, può portare in salvo tanti che altrimenti rischiano di naufragare. Le tempeste, come sappiamo, non mancano ai nostri giorni, ce ne sono tante, non mancano. Molte di esse hanno la loro radice nell’avarizia, nella cupidigia, nella ricerca sfrenata di soddisfare il proprio io, e si alimentano in una cultura individualista, indifferente e violenta. Le tempeste, per la maggior parte, vengono da qui. E sono tanto attuali, in questo senso, le parole di San Zeno, che afferma: «Non è una colpa isolata – fratelli carissimi – lasciarsi avvincere dai ceppi della cupidigia. Ma siccome tutto il mondo è stato arso dall’incendio di questa peste inestinguibile, l’avarizia, a quanto si crede, ha cessato di essere una colpa, perché non ha lasciato nessuno muoverle rimprovero. Tutti si gettano a capofitto in turpi guadagni e non si è trovato nessuno che le imponga il morso della giustizia. Perciò capita che tutte le nazioni cadano istante per istante in seguito alle reciproche ferite”. Il rischio è questo, anche per noi: che il male diventi “normale” – “Questo è normale, questo è normale…”. No. È un rischio, questo. Il male non è normale, non deve essere normale. Nell’inferno sì, ma qui no. Il male non può essere normale. E che facciamo l’abitudine alle cose brutte: “Tutto il mondo lo fa, allora anch’io”. Così diventiamo complici! Invece, parlando ai veronesi, San Zeno dice: «Le vostre case sono aperte a tutti i viandanti, sotto di voi nessuno né vivo né morto fu visto a lungo ignudo. Ormai i nostri poveri ignorano cosa sia mendicare cibo”. Possano queste parole essere vere per voi oggi!. Fratelli e sorelle, grazie! Grazie per aver donato al Signore la vostra vita e per il vostro impegno nell’apostolato. Alcuni giorni fa sono stato riunito con sacerdoti già “in pensione”, dai 40 anni di sacerdozio in su, e ho visto quei preti che hanno dato la vita al Signore e hanno quella saggezza del cuore, ho detto loro lo stesso: grazie per il vostro impegno nell’apostolato. Andate avanti con coraggio. Meglio: andiamo avanti con coraggio, tutti! Abbiamo la grazia e la gioia di stare insieme sulla nave della Chiesa, tra orizzonti meravigliosi e tempeste allarmanti, ma senza paura, perché il Signore è sempre con noi, ed è Lui ad avere il timone, a guidarci, a sostenerci. E questo lo dico non solo ai sacerdoti, anche a voi religiosi e religiose. Avanti, coraggio! A noi il compito di accogliere la chiamata e di essere audaci nella missione. Come diceva un vostro grande santo, Daniele Comboni: “Santi e capaci. L’uno senza dell’altro val poco per chi batte la carriera apostolica. Il missionario e la missionaria non possono andar soli in paradiso. Soli andranno all’inferno. Il missionario e la missionaria devono andare in paradiso accompagnati dalle anime salvate. Dunque, primo: santi, ma non basta: ci vuole carità”, ambedue le cose. Questo auguro a voi e alle vostre comunità: una “santità capace”, una fede viva che con carità audace semini il Regno di Dio in ogni situazione della vita quotidiana. E se il genio di Shakespeare si è fatto ispirare dalla bellezza di questo luogo per raccontarci le vicende tormentate di due innamorati, ostacolati dall’odio delle rispettive famiglie, noi cristiani, ispirati dal Vangelo, impegniamoci a seminare ovunque un amore: dove c’è odio, che io metta amore, dove c’è l’odio che io sia capace di seminare amore. Un amore più forte dell’odio – oggi c’è tanto odio nel mondo –, seminare un amore più forte dell’odio e più forte della morte. Sognatela così, Verona, come la città dell’amore, non solo nella letteratura, ma nella vita. E che l’amore di Dio vi accompagni e vi benedica”.
A seguire, all’uscita dalla Basilica, il Pontefice ha incontrato in Piazza San Zeno bambini e bambine, ragazzi e ragazze che gli hanno rivolto alcune domande sul Vangelo e la chiamata di Gesù, sulla Fede e sulla Pace.
Al termine di questo intenso dialogo, Papa Francesco, a bordo della sua auto, ha raggiunto l’Arena per presiedere l’incontro: “Arena di Pace-Giustizia e Pace si baceranno”, cui hanno preso parte oltre 10 mila persone.
Il Santo Padre, nel corso di tale incontro, in cui vi è stato anche un momento canoro con l’esibizione del cantautore Ligabue, ha risposto a una serie di domande emerse durante i tavoli cui hanno preso parte nei giorni scorsi circa 800 delegati e delle delegate che hanno elaborato un manifesto consegnato proprio in questa giornata al Papa.
Cinque, gli ambiti tematici al centro delle domande dei delegati e delle delegate, connessi al tema della Pace: la Pace va organizzata (Tavolo Democrazia Diritti); la Pace va promossa(Tavolo Migrazioni); la Pace va curata (Tavolo Ambiente/Creato); la Pace va sperimentata (Tavolo Disarmo); la Pace va preparata (Tavolo Lavoro ed Economia).
Alla prima domanda sul tema la Pace va organizzata, posta da due delegate del Tavolo su Democrazia e Diritti, di cui una proveniente da Kabul, Papa Francesco ha risposto: “La cultura fortemente marcata dall’individualismo rischia sempre di far sparire la dimensione della comunità, dei legami vitali che ci sostengono e ci fanno avanzare. E questa in termini politici è la radice delle dittature. E inevitabilmente produce delle conseguenze anche sul modo in cui si intende l’autorità. Chi ricopre un ruolo di responsabilità in un’istituzione politica, oppure in un’impresa o in una realtà di impegno sociale, rischia di sentirsi investito del compito di salvare gli altri come se fosse un eroe. Questo avvelena l’autorità. E questa è una delle cause della solitudine che tante persone in posizione di responsabilità confessano di sperimentare, come pure una delle ragioni per cui siamo testimoni di un crescente disimpegno”. Se l’idea che abbiamo del leader è quella di un solitario, al di sopra di tutti gli altri, chiamato a decidere e agire per conto loro e in loro favore, allora stiamo facendo nostra una visione impoverita e impoverente, che finisce per prosciugare le energie creative di chi è leader e per rendere sterile l’insieme della comunità e della società. Gli psichiatri dicono che una delle aggressioni più sottili è la idealizzazione: è un modo di aggredire. È questa è una visione ben lontana da quella espressa dal detto bantu: “Io sono perché noi siamo”. La saggezza di questo detto sta nel fatto che l’accento è posto sul vincolo tra i membri di una comunità: “Noi siamo, io sono”. Nessuno esiste senza gli altri, nessuno può fare tutto da solo. Allora l’autorità di cui abbiamo bisogno è quella che innanzi tutto è in grado di riconoscere i propri punti di forza e i propri limiti, e quindi di capire a chi rivolgersi per avere aiuto e collaborazione. L’autorità è essenzialmente collaborativa; altrimenti sarà autoritarismo e tante malattie che ne nascono. L’autorità per costruire processi solidi di pace sa infatti valorizzare quanto c’è di buono in ognuno, sa fidarsi, e così permette alle persone di sentirsi a loro volta capaci di dare un contributo significativo. Questo tipo di autorità favorisce la partecipazione, che spesso si riconosce essere insufficiente sia per la quantità che per la qualità. Partecipazione: non dimenticare questa parola. Lavoriamo tutti, tutti partecipiamo nell’opera che portiamo avanti. Una buona partecipazione che voi descrivete così: «Espressione di domande e proposta di risposte collettive a criticità e aspirazioni, produttrice di cultura e nuove visioni del mondo, energia civile che rende individui e comunità protagonisti del proprio futuro» (Documento Democrazia). In una società o in un Paese o in una città, anche in una piccola impresa, se non c’è partecipazione le cose non funzionano, perché noi siamo comunità, non siamo solitari. Non dimenticare questa parola: partecipazione. È importante”.
Poi, il Pontefice ha sottolineato: “E una grande sfida oggi è risvegliare nei giovani la passione per la partecipazione. C’è una parolina che dimentichiamo quando diciamo: “faccio io”, “andrò io”… La parolina qual è? Insieme. Questa forza dell’insieme, la partecipazione è questo. Bisogna investire sui giovani, sulla loro formazione, per trasmettere il messaggio che la strada per il futuro non può passare solo attraverso l’impegno di un singolo, per quanto animato delle migliori intenzioni e con la preparazione necessaria, ma passa attraverso l’azione di un popolo – il popolo è protagonista, non dimentichiamo questo –, in cui ognuno fa la propria parte, ciascuno in base ai propri compiti e secondo le proprie capacità. E vi farei io una domanda: in un popolo, il lavoro dell’insieme è la somma del lavoro di ognuno? Soltanto quello? No, è di più! È di più. Uno più uno fa tre: questo è il miracolo di lavorare insieme”.
Ancora, rispondendo alla seconda domanda sul tema: la Pace va promossa, posta da un delegato del Tavolo Migrazioni, proveniente dal Brasile, il Santo Padre , ha evidenziato: “Con le sue azioni Gesù rompe convenzioni e pregiudizi, rende visibili le persone che la società del suo tempo nascondeva o disprezzava. Questo è molto importante: non nascondere le limitazioni. Ci sono persone molto limitate, fisicamente, spiritualmente, socialmente, economicamente… Non nascondere le limitazioni. Gesù non le nascondeva. E Gesù lo fa senza volersi sostituire a loro, senza strumentalizzarle, senza privarle della loro voce, della loro storia, dei loro vissuti. A me piace quando vedo persone con limitazioni fisiche che partecipano agli incontri, come in questo caso, perché Gesù non le nascondeva, questa è la verità. Ognuno ha la propria voce, sia che parli con la lingua sia che parli con la propria esistenza. Ognuno di noi ha la propria voce. E tante volte noi non sappiamo ascoltarla perché pensiamo ciascuno alle proprie cose o, peggio ancora, andiamo tutto il giorno con il telefonino e questo ci impedisce di vedere la realtà: tante volte, no?. Come avete scritto nel documento di un vostro tavolo di lavoro, per porre fine ad ogni forma di guerra e di violenza bisogna stare a fianco dei piccoli, rispettare la loro dignità, ascoltarli e fare in modo che la loro voce possa farsi sentire senza essere filtrata. Sempre vicino ai piccoli, perché la loro voce si faccia sentire. Incontrare i piccoli e condividere il loro dolore. E prendere posizione al loro fianco contro le violenze di cui sono vittime, uscendo da questa cultura dell’indifferenza che si giustifica tanto. Una domanda – io so che voi sapete questo –: abbiamo pensato oggi a quanti bambini e bambine sono costretti a lavorare, lavori da schiavi, per guadagnarsi la vita? I piccoli… Quel bambino che forse mai ha avuto un giocattolo perché deve andare di qua, di là, di là a guadagnarsi il pane, forse nelle discariche cercando cose da vendere… Ce ne sono tanti, di bambini così, che non sanno giocare perché la vita li ha costretti a vivere così. I piccoli: i piccoli soffrono. E soffrono per colpa del maltempo? No, per colpa nostra. Siamo noi i responsabili. “No, Padre, io no, perché io sono…”. Tutti siamo responsabili, tutti siamo responsabili di tutti. Ma oggi credo che il “premio Nobel” che possiamo dare a tanti, a tanti di noi, sia il “premio Nobel” di Ponzio Pilato, perché siamo maestri nel lavarcene le mani. Ecco, questa è la conversione che cambia la nostra vita, la conversione che cambia il mondo. Una conversione che riguarda tutti noi singolarmente, ma anche come membri delle comunità, dei movimenti, delle realtà associative a cui apparteniamo, e come cittadini. E riguarda anche le istituzioni, che non sono esterne o estranee a questo processo di conversione”.
Alla domanda della delegata del Tavolo Ambiente, un’ attivista proveniente dall’Uganda, sul tema la Pace va curata, Papa Francesco ha risposto: “Nella nostra società viviamo questa tensione: da un lato, tutto ci spinge ad agire velocemente, siamo abituati ad avere una risposta immediata alle nostre richieste e diventiamo impazienti se si verifica un ritardo. Per esempio, la rivoluzione digitale degli ultimi anni ci ha permesso di essere costantemente connessi, di poter comunicare facilmente con persone molto distanti, di poter svolgere il nostro lavoro a distanza. Dovremmo avere più tempo a disposizione e invece ci accorgiamo che siamo sempre in affanno, rincorrendo l’urgenza dell’ultimo minuto. Dall’altro lato, sentiamo che tutto questo non è naturale. Questo è “bellicoso”, questo è guerra, non è naturale. Nella nostra società si respira un’aria stanca, c’è la stanchezza nell’aria, tanti non trovano ragioni per portare avanti le loro attività quotidiane, appesantiti dalla sensazione di essere sempre fuori tempo, come intrappolati nella ripetizione di quanto si fa, poiché non si ha la forza o il tempo di cercare un’armonia. La pace non si inventa da un giorno all’altro. La pace va curata. Se noi non curiamo la pace ci sarà la guerra, piccole guerre, grandi guerre. La pace va curata, e oggi nel mondo c’è questo peccato grave: non curare la pace! Il mondo è in corsa, occorrerebbe a volte saper rallentare la corsa e non lasciarci travolgere dalle attività e fare spazio dentro di noi all’azione di Dio, all’azione dei fratelli, all’azione della società che cerca il bene comune. “Rallentare” può suonare come una parola fuori posto, in realtà è l’invito a ricalibrare le nostre attese e le nostre azioni. Si tratta di fare una “rivoluzione” in senso astronomico: andare a cercare la pace, e come si fa questo? Sempre con il dialogo: la pace si fa nel dialogo. Riconoscere gli altri, rispettarli con saggezza. La sfida enorme che abbiamo davanti è quella di andare controcorrente per riscoprire e custodire contesti in cui tutto ciò sia possibile viverlo con gli altri. E non dobbiamo inventare tutto da zero, dobbiamo farci carico della storia. Tante volte le guerre vengono dall’impazienza di fare presto le cose e non avere quella pazienza di costruire la pace, lentamente, con il dialogo. La pazienza è la parola che dobbiamo ripetere continuamente: la pazienza per fare la pace. E se qualcuno – lo vediamo nella vita naturale – se qualcuno ti insulta, ti viene subito la voglia di dirgli il doppio e poi il quadruplo e così si va moltiplicando l’aggressione, le aggressioni si moltiplicano. Dobbiamo fermare, fermare l’aggressione. Una volta – è stata una scena molto divertente – c’era una persona che è andata a comprare qualcosa, e si vede che non le davano il prezzo giusto e allora ha gridato di tutto, ha gridato di tutto. E il signore del negozio lo ascoltava e quando quello ha finito di gridare gli ha detto: “Signore, ha finito?” – “Sì, ho finito!” – “Vattene a spasso”. Non l’ha detto con queste parole, con parole più forti, ma l’ha mandato a fare una passeggiata. Quando noi vediamo che le cose incominciamo a essere bollenti, fermiamoci, facciamo una passeggiata o diciamo una parola, e le cose andranno meglio. Fermarsi in tempo, fermarsi in tempo!”.
Alla domanda dei delegati del Tavolo sul Disarmo, riguardo al tema la Pace va sperimentata, il Pontefice ha risposto:” Nella nostra vita, nelle nostre realtà, nei nostri territori saremo sempre chiamati a fare i conti con le tensioni e i conflitti. Davanti a questo non si può stare fermi: tu devi fare un’opzione, tu devi essere creativo. Un conflitto è proprio una sfida alla creatività. Da un conflitto mai si può uscire, primo, da soli: da un conflitto mai uscirai da solo, ci vuole la comunità, ci vuole l’aiuto sia della famiglia, degli amici, ma mai da un conflitto si può uscire da soli. E, secondo, da un conflitto si esce soltanto “da sopra”. Altrimenti andrai giù. Il conflitto ha qualcosa di labirintico: da un labirinto tu non puoi uscire da solo, ci vuole almeno il filo, quello di Arianna, che poi ti aiuterà a uscire. E da un conflitto si esce per essere migliori, “da sopra”. Da un conflitto non si può uscire con anestesia, no, da un conflitto è necessario uscire con realismo: io sono nel labirinto; dobbiamo essere capaci di dare un nome ai conflitti, prenderli in mano e uscire, uscire da sopra e uscire accompagnati, almeno con il filo. Nella nostra vita saremo sempre chiamati a fare passi avanti con i conflitti, a dialogare con i conflitti. Spesso siamo tentati di pensare che la soluzione per uscire dai conflitti e dalle tensioni sia quella della loro rimozione. No! Li ignoro, li nascondo, li marginalizzo. No. Questa è una bomba a orologeria. Così facendo amputo la realtà di un pezzo scomodo ma anche importante. Sappiamo che l’esito finale di questo modo di vivere i conflitti è quello di accrescere le ingiustizie e generare reazioni di malessere, di frustrazione, che possono tradursi anche in gesti violenti. E questo lo vediamo anche nella politica, nella società. Quando nella politica, qualsiasi politica, si nascondono i conflitti, questi scoppiano dopo, e scoppiano male. Non c’è l’armonia. Né in famiglia né nella società si possono nascondere i conflitti. Per questo, quando ci sono problemi in famiglia, dobbiamo parlarne per chiarirli. E quando ci sono problemi nella società, dobbiamo condividerli per risolverli. Ma da soli non si esce. Un’altra risposta dal fiato corto è quella di cercare di risolvere le tensioni facendo prevalere uno dei poli in gioco, e questo è suicidio, perché si riduce la pluralità di posizioni a un’unica prospettiva. Oggi il Vescovo mi ha fatto vedere l’atto di nascita di un grande, Romano Guardini, che è nato qui a Verona. Lui diceva che sempre i conflitti si risolvono su un piano superiore, perché così i conflitti si trasformano in lievito di nuova cultura, di nuove cose per andare avanti. L’uniformità è un vicolo cieco: invece di andare avanti si va sotto; l’uniformità non serve, serve l’unità, e per raggiungere l’unità bisogna lavorare con i conflitti. Quando si ha paura nei confronti della pluralità, possiamo dire che quella famiglia, quella società psicologicamente e culturalmente si suicida. Il primo passo da fare per vivere in modo sano tensioni e conflitti è riconoscere che fanno parte della nostra vita, sono fisiologici, quando non travalicano la soglia della violenza. Quindi non averne paura: benvenuti, per risolverli. Non averne paura. Non temere se ci sono idee diverse che si confrontano e forse si scontrano. In queste situazioni siamo chiamati a un esercizio diverso. Lasciarci interpellare dal conflitto, lasciarci provocare dalle tensioni, per metterci in ricerca: come risolvere, come andare alla ricerca dell’armonia. Questo è un lavoro che noi non siamo abituati a fare: eppure è la ricchezza, è la ricchezza sociale, questo, sia della famiglia sia della società. Ci sono dei conflitti? Andiamo, parliamo dei conflitti, confrontiamoci per risolverli. Per favore, non avere paura dei conflitti, siano conflitti famigliari, siano sociali. Ed è chiaro che se io non ho paura del conflitto, sono portato a fare il dialogo. E il dialogo ci aiuta a risolvere i conflitti, sempre. Ma il dialogo non è arrivare all’uguaglianza, no, perché ognuno ha la propria idea; ma ci fa condividere la pluralità. Il peccato dei regimi politici che sono finiti nelle dittature è che non ammettono la pluralità; e la pluralità è nella società più grande come in famiglia: la nuora con la suocera – bella cosa da risolvere, no? –, ma quel conflitto familiare va risolto come va risolto un conflitto mondiale. Dobbiamo imparare a vivere con i conflitti: quando i figli adolescenti incominciano a chiedere cose che non siamo abituati a dare loro, c’è un conflitto familiare: ascoltarli, dialogo. Papà che dialoga con i figli, mamma che dialoga con i figli, cittadini che dialogano tra loro… Dialogo. E i conflitti ti fanno progredire. Una società senza conflitto è una società morta; una società dove si nascondono i conflitti è una società suicida; una società dove si prendono i conflitti per mano e si dialoga è una società di futuro”.
Momento toccante è stato poi quello dell’ultima domanda, posta dai delegati del Tavolo Lavoro ed Economia ,sul tema della Pace che va preparata, tra cui due imprenditori, uno israeliano, e l’altro palestinese, che hanno perso entrambi dei familiari nella guerra a Gaza e che ora sono amici e collaboratori, il cui abbraccio è stato salutato dall’Arena con un applauso e una standing ovation, ai cui quesiti Papa Francesco ha risposto: “Credo che davanti alla sofferenza di questi due fratelli, che è la sofferenza di due popoli, non si può dire nulla… non si può dire nulla. Loro hanno avuto il coraggio di abbracciarsi. E questo non è solo coraggio e testimonianza di volere la pace, ma anche è un progetto di futuro. Abbracciarci. Ambedue hanno perso i familiari, la famiglia si è rotta per questa guerra. A che serve la guerra? Per favore, facciamo un piccolo momento di silenzio, perché non si può parlare troppo di questo, ma “sentire”. E guardando l’abbraccio di questi due, ognuno dal proprio cuore preghi il Signore per la pace, e prenda una decisione interiore di fare qualcosa perché finiscano le guerre. In silenzio, un attimo…E pensiamo ai bambini in questa guerra, in tante guerre… Quale futuro avranno? Mi vengono in mente i bambini ucraini che vengono a Roma: non sanno sorridere. I bambini nella guerra perdono il sorriso. E pensiamo ai vecchi che hanno lavorato tutta la vita per portare avanti questi due Paesi, e adesso… Una sconfitta, una sconfitta storica e una sconfitta di tutti noi. Preghiamo per la pace, e diciamo a questi due fratelli che portino questo desiderio nostro e la volontà di lavorare per la pace al loro popolo. Grazie fratelli!”.
Infine, nel suo intervento conclusivo all’Arena, il Santo Padre, ha detto: “Abbiamo ascoltato le donne. E il mondo ha bisogno di guardare alle donne per trovare la pace. Sono le mamme. Le testimonianze di queste coraggiose costruttrici di ponti fra israeliani e palestinesi ce lo confermano. Sono sempre più convinto che «il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. È soprattutto nelle mani dei popoli – i popoli! –; nella loro capacità di organizzarsi e anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento”. Il popolo deve avere coscienza di sé stesso e agire come popolo, agire con questa volontà di fare pace. Voi, però, tessitrici e tessitori di dialogo in Terra Santa, per favore, chiedete ai leader mondiali di ascoltare la vostra voce, di coinvolgervi nei processi negoziali, perché gli accordi nascano dalla realtà e non dalle ideologie. Ricordiamo che le ideologie non hanno piedi per camminare, non hanno mani per curare le ferite, non hanno occhi per vedere le sofferenze dell’altro. La pace si fa con i piedi, le mani e gli occhi dei popoli coinvolti, insieme tutti. La pace non sarà mai frutto della diffidenza, frutto dei muri, delle armi puntate gli uni contro gli altri. San Paolo dice: «Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato”.. Fratelli e sorelle, le nostre civiltà in questo momento stanno seminando, distruzione, paura. Seminiamo, fratelli e sorelle, speranza! Siamo seminatori di speranza! Ognuno cerchi il modo di farlo, ma seminatori di speranza, sempre. È quello che state facendo anche voi, in questa Arena di Pace: seminare speranza. Non smettete. Non scoraggiatevi. Non diventate spettatori della guerra cosiddetta “inevitabile”. No, spettatori di una guerra cosiddetta inevitabile, no. Come diceva il vescovo Tonino Bello: “In piedi tutti, costruttori di pace!”.
Successivamente , per la terza tappa della Sua visita pastorale a Verona, Papa Francesco si è recato presso la Casa circondariale di Montorio, dove ha incontrato gli Agenti di Polizia Penitenziaria, i detenuti e i volontari e le volontarie e ha tenuto un discorso nel quale ha evidenziato: “Per me entrare in un carcere è sempre un momento importante, perché il carcere è un luogo di grande umanità. Sì, è un luogo di grande umanità. Di umanità provata, talvolta affaticata da difficoltà, sensi di colpa, giudizi, incomprensioni, sofferenze, ma nello stesso tempo carica di forza, di desiderio di perdono, di voglia di riscatto, come ha detto Duarte nel suo discorso. E in questa umanità, qui, in tutti voi, in tutti noi, è presente oggi il volto di Cristo, il volto del Dio della misericordia e del perdono. Non dimenticate questo: Dio perdona tutto e perdona sempre, in questa umanità, qui, in tutti voi. Questo senso di guardare il Dio della misericordia. Conosciamo la situazione delle carceri, spesso sovraffollate – nella mia terra, pure -, con conseguenti tensioni e fatiche. Per questo voglio dirvi che vi sono vicino, e rinnovo l’appello, specialmente a quanti possono agire in questo ambito, affinché si continui a lavorare per il miglioramento della vita carceraria. Una volta, una signora che lavorava nelle carceri e aveva un bel rapporto con le detenute – però era un carcere femminile –, una mamma di famiglia, molto umana la signora, mi ha detto che lei era devota a una santa. “Ma quale santa?” – “Santa Porta” – “Perché?” – “È la porta della speranza”. E tutti voi dovete guardare a questa porta della speranza. Non c’è vita umana senza orizzonti. Per favore, non perdere gli orizzonti, che si vedranno attraverso quella porta della speranza. Seguendo le cronache del vostro istituto, con dolore ho appreso che purtroppo qui, recentemente, alcune persone, in un gesto estremo, hanno rinunciato a vivere. È un atto triste, questo, a cui solo una disperazione e un dolore insostenibili possono portare. Perciò, mentre mi unisco nella preghiera alle famiglie e a tutti voi, voglio invitarvi a non cedere allo sconforto, a guardare la porta come la porta della speranza. La vita è sempre degna di essere vissuta, sempre!, e c’è sempre speranza per il futuro, anche quando tutto sembra spegnersi. La nostra esistenza, quella di ciascuno di noi, è importante – noi non siamo materiale di scarto, l’esistenza è importante –, è un dono unico per noi e per gli altri, per tutti, e soprattutto per Dio, che mai ci abbandona, e che anzi sa ascoltare, gioire e piangere con noi e perdonare sempre. Con Lui al nostro fianco, con il Signore al nostro fianco, possiamo vincere la disperazione. E, come ha detto la direttrice, Dio è uno: le nostre culture ci hanno insegnato a chiamarlo con un nome, con un altro, e a trovarlo in maniere diverse, ma è lo stesso padre di tutti noi. È uno. E tutte le religioni, tutte le culture, guardano all’unico Dio con modalità differenti. Mai ci abbandona. Con Lui al nostro fianco, possiamo vincere la disperazione e vivere ogni istante come il tempo opportuno per ricominciare. Ricominciare. C’è una bella canzone piemontese che cercherò di tradurre in italiano che dice così – la cantano gli alpini –: “Nell’arte di ascendere, quello che importa non è non cadere, ma non rimanere caduto”. E a tutti noi che lavoriamo in questo carcere, anche come volontari, ai famigliari, a tutti noi, dico una cosa: è lecito guardare una persona dall’alto in basso soltanto una sola volta: per aiutarlo a sollevarsi. Perciò, nei momenti peggiori, non chiudiamoci in noi stessi: parliamo a Dio del nostro dolore e aiutiamoci a vicenda a portarlo, tra compagni di cammino e con le persone buone che ci troviamo al fianco. Non è debolezza chiedere aiuto, no: facciamolo con umiltà e fiducia e umanità. Tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri, e tutti abbiamo diritto a sperare, al di là di ogni storia e di ogni errore o fallimento. È un diritto la speranza, che mai delude. Mai. Tra pochi mesi inizierà l’Anno Santo: un anno di conversione, di rinnovamento e di liberazione per tutta la Chiesa; un anno di misericordia, in cui deporre la zavorra del passato e rinnovare lo slancio verso il futuro; in cui celebrare la possibilità di un cambiamento, per essere e, dove necessario, tornare ad essere veramente noi stessi, donando il meglio. Sia anche questo un segno che ci aiuti a rialzarci e a riprendere in mano, con fiducia, ogni giorno della nostra vita. Cari amiche e cari amici, grazie per questo incontro. Vi dico la verità: mi fa bene. Voi mi state facendo bene, grazie. Continuiamo a camminare insieme, perché l’amore ci unisce al di là di ogni tipo di distanza. Vi ricordo nella preghiera e vi chiedo, per favore, di pregare per me: a favore, non contro! Pregate per me. E non dimenticate: “Nell’arte di salire quello che importa non è non cadere, ma non rimanere caduto”.
Ancora, parlando a braccio, alla consegna di un dono alla struttura detentiva, prima di impartire la benedizione, il Pontefice ha spiegato: “Ho pensato a una virtù che Dio ha, e che noi dimentichiamo, no? Perché Dio ha tre virtù principali: vicinanza, compassione e tenerezza. Dio è vicino a tutti noi, Dio è compassionevole e Dio è tenero. E ho pensato alla tenerezza – non si parla tanto della tenerezza –, ho pensato a questo dono: la Madonna con il bambino che è proprio un gesto di tenerezza. E ho pensato anche che la figura di Maria è una figura comune sia al cristianesimo sia ai musulmani, è una figura comune, ci unisce tutti”.
La visita pastorale di Papa Francesco a Verona, si è poi conclusa con la Concelebrazione eucaristica, svoltasi presso lo Stadio Bentegodi alla presenza di 32 mila fedeli, tra cui moltissimi ragazzi e ragazze e giovani.
Nel corso della celebrazione, il Pontefice, riferendosi al giorno della Pentecoste, che cade domani, ha esposto le Sue riflessioni sullo Spirito Santo: “Fratelli e sorelle, lo Spirito Santo è il protagonista della nostra vita! È quello che ci porta avanti, che ci aiuta ad andare avanti, che ci fa sviluppare la vita cristiana. Lo Spirito Santo è dentro di noi. State attenti: tutti abbiamo ricevuto, con il Battesimo, lo Spirito Santo, e anche con la Cresima, di più! Ma io ascolto lo Spirito Santo che è dentro di me? Ascolto lo Spirito che muove il cuore e mi dice: “Questo non farlo, questo sì”? O per me non esiste lo Spirito Santo?. Oggi celebriamo la festa del giorno in cui lo Spirito Santo è venuto. Ma pensate: gli Apostoli erano tutti chiusi nel cenacolo. Avevano paura, le porte chiuse… È venuto lo Spirito Santo, ha cambiato loro il cuore, e sono andati a predicare con coraggio. Coraggio: lo Spirito Santo ci dà il coraggio di vivere la vita cristiana. E per questo, con questo coraggio, cambia la nostra vita.A volte noi andiamo alla Confessione con gli stessi peccati: “Ma padre, io vorrei cambiare la vita, non so come farlo…” – “Ma ascolta lo Spirito! Prega lo Spirito e sarà Lui a cambiarti la vita. Affidati alla Spirito” – “Eh, padre, io ho 90 anni, ormai non posso cambiare…” – “Ma quanti giorni di vita ti mancano?” – “Eh, non so” – “Con un solo giorno, lo Spirito ti può cambiare la vita. Ti può cambiare il cuore!”. Lo Spirito prima di tutto è Colui che ci cambia la vita. Avete capito questo? Ripetiamo insieme: “Lo Spirito ci cambia la vita”. E questo è bello. Secondo. Gli Apostoli che erano con tanta paura, quando hanno ricevuto lo Spirito Santo, sono andati avanti con coraggio a predicare il Vangelo. Lo Spirito Santo ci dà coraggio per vivere cristianamente. A volte troviamo cristiani che sono come l’acqua tiepida: né caldi né freddi. Gli manca il coraggio. “E padre, dove si può fare un corso per avere coraggio?” – “No, prega lo Spirito. Affidati alla Spirito”. Lo Spirito ci dà il coraggio per vivere cristianamente. Avete capito questo? Tutti insieme: “Lo Spirito ci dà coraggio”. Ecco! E chiediamo questo: lo Spirito che ci aiuti ad andare avanti. E poi, una cosa molto bella fece lo Spirito quel giorno della Pentecoste. C’era gente di tutte le nazioni, di tutte le lingue, di tutte le culture, e lo Spirito, con quella gente, edifica la Chiesa. Lo Spirito edifica la Chiesa. Cosa vuol dire? Che fa tutti uguali? No! Tutti differenti, ma con un solo cuore, con l’amore che ci unisce. Lo Spirito è Colui che ci salva dal pericolo di farci tutti uguali. No. Siamo tutti redenti, tutti amati dal Padre, tutti ammaestrati da Gesù Cristo. E lo Spirito che fa? Fa quella cosa: l’insieme di tutti. C’è una parola che spiega bene questo: lo Spirito fa l’armonia! L’armonia della Chiesa. Ognuno differente dall’altro, ma in un clima di armonia. Insieme diciamo: lo Spirito fa di noi l’armonia. Tutti: “Lo Spirito fa di noi l’armonia”. Cari fratelli e sorelle, questo è il miracolo di oggi: prendere uomini codardi, impauriti e farli coraggiosi; prendere uomini e donne di tutte le culture e farne un’unità di tutti, fare la Chiesa. Prendere questa gente senza farli uguali. Cosa fa lo Spirito? L’armonia. Insieme: lo Spirito fa l’armonia. Adesso ognuno di noi pensi alla propria vita. Tutti noi abbiamo bisogno dell’armonia. Tutti noi abbiamo bisogno che lo Spirito ci dia armonia nella nostra anima, nella famiglia, nella città, nella società, nel posto di lavoro. Il contrario dell’armonia è la guerra, è lottare uno contro l’altro. E quando si fa la guerra, quando si lotta uno contro l’altro, questo lo fa lo Spirito, sì o no?. “No. Lo Spirito fa l’armonia. E con gli Apostoli, il giorno che è venuto, c’era la Madonna, la Vergine Maria. Chiediamo la Lei, che ci dia la grazia di ricevere lo Spirito Santo; che Lei, come Madre, ci insegni a ricevere lo Spirito Santo. Grazie”.
Al termine della Concelebrazione eucaristica, Papa Francesco , alle 17:42, è partito a bordo dell’elicottero che lo ha condotto presso l’eliporto del Vaticano alle 19:12, da dove poi ha fatto ritorno a Casa Santa Marta.
©Riproduzione riservata