Nel giorno della Festa dell’Assunzione, ai più nota come Ferragosto, una riflessione sulle vacanze e su come queste, nell’estate segnata dalla pandemia da Covid19, possano rappresentare l’occasione per compiere un vero e proprio viaggio nella memoria, ritrovando , insieme con i luoghi, stagioni della vita perdute come l’infanzia.
di Federica Marengo sabato 15 agosto 2020

Ci sono luoghi che lasciano tracce indelebili nella vita di un essere umano. Ci sono posti, che, l’anima, una volta incontrati, non può fare a meno di fotografare e di conservare nella memoria del tempo perduto,quello che non torna più indietro.
Ci sono mari e cieli dai colori indimenticabili, che non si possono trovare altrove, se non dentro se stessi, lì dove vengono lasciati. Quei colori, si possono si possono ritrovare solo visitando il museo dei ricordi più intimi.
Ci sono sapori, odori che restano indissolubilmente legati alle emozioni provate in diverse stagioni dell’esistenza : specie nell’infanzia.
Lo struggimento della malinconia, spesso, suggerisce alla mente di riaprire i cassetti chiusi, colmi di passato , per riportare alla luce un oggetto, uno scritto, un’immagine, un ricordo di ieri. Con maggiore solerzia, poi, suggerisce ai cuori cedevoli alle molli lusinghe della nostalgia (canaglia!) di viaggiare per raggiungere quel posto assurto a simbolo del proprio rimpianto di felicità.
Così, anche io, preda della “sindrome di Ulisse”, decido di tornare alla mia Itaca, che è: l’isola di Capri, nei cui itinerari spero di respirare l’essenza dell’ infanzia perduta.
Durante il tragitto in nave, rincontro l’entusiasmo della bambina che si sporgeva dagli oblò per osservare la magia del mare , il luccichio dorato della sua spuma baciata dal sole: suggestioni che emanano un candido tepore, che mondano l’anima dalle scorie del cinismo della routine.
Il traghetto arriva al porto e attracca: è tutto un rumore di ancore. Scendo a terra, la mia isola è lì: la vedo. Vedo il suo corpo fiero e maestoso, fatto di rocce, grotte , caverne e di scogli a picco sul mare , quel mare azzurro che è uno spicchio di cielo scivolato nell’acqua.
La mia valigia non è pesante : è una sacca discreta e leggera, che non occupa tanto spazio e che passa inosservata; infatti, sembra sentirsi a disagio in mezzo ai bagagli di una certa mole ,con marchio griffato bene in vista che la circondano. Il suo peso esiguo mi consente di procedere a piedi, lungo il molo e di arrivare alla spiaggia del porto: la spiaggia che frequentavo da bambina.
Davanti a me, una distesa plumbea di ghiaia e sassi, lambita e sferzata da onde libere che la investono completamente. Qui, non ci sono stabilimenti balneari alla moda, con i loro pettegolezzi da ombrellone , qui, non c’è il lusso ostentato di certi bagnanti in cerca di affermazione sociale piuttosto che del contatto con il mare e la natura.
Quindi, abbandono il bagnasciuga dell’infanzia, su cui ho lasciato i quaderni delle Elementari , zeppi di lettere dell’alfabeto e di sottrazioni e , proseguendo in direzione opposta, per alcuni metri , mi imbatto nel versante del porto riservato all’ormeggio delle imbarcazioni.
Quando ero bambina era tutto un via vai di barche di legno e un brulichio di reti e di ami, oggi, invece, ci sono yacht e motoscafi e la saggezza popolare dei pescatori ha ceduto il passo a capitani di bordo esperti.
D’un tratto, mi accorgo che nei pressi del pontile di sbarco , non c’è più la scultura in bronzo di un delfino che, come fosse un rituale, accarezzavo ogni sera, passeggiando dopo cena tra le banchine e le luci dei battelli in festa. Ora , quelle barchette di pescatori e quel calco di delfino riposano negli abissi di ciò che si è perduto.
Capri, l’isola selvaggia e dolce, l’isola delle sirene che incantavano i naviganti che lambivano con i loro vascelli i Faraglioni , l’isola del sole e dell’amore, non c’è più, come non esiste più la Capri della dolcevita, con la sua “piazzetta”, dove, seduti ai tavolini, intellettuali, scrittori, artisti, dive e divi del cinema di Hollwood o di Cinecittà sorseggiavano drink e limoncello.
Non esiste più l’isola cantata in “Luna caprese”, quella delle taverne e delle osterie a conduzione familiare, dei chioschi dove sorseggiare limonate fresche e granite, quella degli asini che percorrevano Via Camerelle al trotto di savi contadini. Resta però la sua bellezza, sofisticata e al tempo stesso semplice,che ammalia i sensi e ingentilisce il cuore. Restano le sue viste e i suoi scorci mozzafiato. Ed è proprio guardando il sole scomparire al tramonto dietro uno dei suoi promontori a strapiombo sul mare che torna alla mente il mio ricordo più vivo dell’ infanzia: un giovane turista americano seduto al crepuscolo, sul muricciolo del porto , con lo sguardo rivolto verso l’infinito , in cerca della sua terra lontana. Questa è la mia Capri, questa è la mia isola perduta e poi ritrovata, quella che mi ha spiegato, senza il frastuono delle parole, il sentimento della nostalgia.
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